giovedì 3 febbraio 2011

Capitolo 3 - La sposa (seconda parte)


La si vedeva spesso ai party demi-monde, che di solito avvenivano quando i genitori del padrone di casa erano fuori città, sull’altra sponda di Manhattan, dove i salotti venivano trasformati in covi d’immoralità con luci soffuse fatte in casa mettendo i foulard sulle lampade da tavolo, con le stampe di Man Ray appese al muro. La colonna sonora era formata da pezzi scat, tamburellare di bonghi, un sassofono suonato senza senso o le note, diffuse dal giradischi, dei fragili “settantotto” e dei 45 giri plastificati che li stavano rimpiazzando. Gli ascoltatori, seduti con le gambe accavallate, avevano le palpebre chiuse in un’estasi di piacere, per qualcuno si trattava di un preludio ai preliminari e agli attacchi di “sindrome del deserto”[1].
È in questo contesto eccentrico che gli occhi di un certo Toshi Ichiyanagi scorsero per la prima volta il maldestro fascino di Yoko, seduta con un gruppetto di compagne del Sarah Lawrence. Indagando con nonchalance tra gli altri partecipanti alla festa (tutti dotati di basco, barbetta di una settimana, e pullover cencioso) scoprì il suo nome e ottenne qualche breve informazione sul suo passato. Da parte sua anche Yoko sembrava interessarsi a Yoshi, osservandolo con la coda dell’occhio.
Il contatto era avvenuto e Yoko seppe che Toshi studiava alla Julliard School of Music di New York, dove faceva il trapezista senza rete sulla fune dell’avant-garde. Prima che la serata finisse si dettero un appuntamento, a cui ne seguì un secondo e un terzo, ecc… finché Toshi e Yoko non oltrepassarono quel sottile limite tra amicizia incerta e amore dichiarato.
Però, questo nuovo fidanzato (praticamente il primo, per Yoko) non colpì particolarmente i genitori di lei, soprattutto a causa dell’evidente educazione proletaria. Le obiezioni di Eisuke e Isoko al matrimonio dei due portarono Yoko ad abbandonare sia il college che la famiglia per un periodo di romantico squallore (ma pur sempre squallore) prima che i genitori cedessero. Anche se non vi presero parte, i signori Ono pagarono il ricevimento in una grande sala per cerimonie in città e convinsero il Console Generale giapponese a fare un discorso dopo la cena.
Furono anche costretti a prendere atto del fatto che Yoko non sarebbe tornata al Sarah Lawrence. Si trasferì invece in un loft al quinto piano, scarsamente arredato e senza riscaldamento, di Chamber Street, al centro del Lower West Side di Manhattan, nel bel mezzo di un tremendo cambio di stagione dal calore dell’oro al gelo del marmo. La luce del cielo era ghiacciata e la pelle d’oca spopolava in quell’inverno triste. In un tripudio di venti da est, la neve continuò a cadere fino ai primi di aprile e Yoko, tremando in un inquieto dormiveglia, non riusciva a dormire al fianco di Toshi, che russava a bocca aperta.
Una serata casalinga di crude verità poteva concludersi con un’improvvisa riconciliazione tra le lacrime, ma Toshi e Yoko non erano più una coppietta innamorata che se ne andava in giro per New York mano nella mano. Tutte le tenerezze erano scomparse poco a poco. Entrambi avevano letto Nietzsche e, alla fine, Yoko era arrivata ad identificarsi col credo personale del filosofo tedesco dell’irrazionalità: la vita familiare è incompatibile con una vita di costante creatività.
La passione era dunque finita? In poche ore Yoko sarebbe tornata a Scarsdale, a spazzolare il pranzo preparatole dalla cuoca, poi si sarebbe persa in un film o davanti alla tv, prima di immergersi nell’acqua calda e profumata della vasca verde smeraldo, col riscaldamento dall’alto ed infine si sarebbe addormentata di nuovo nella sua cameretta. La prospettiva di tutti i “te l’avevo detto”, della delusione di quelle facce smunte per il suo abbandono del college e degli interrogatori su cosa avesse fatto esattamente fino a quel momento, non era più così terribile.
Ma Yoko non si abbatteva. Anche se il suo affetto per Toshi non era del tutto esaurito, lei, che probabilmente arrivò vergine alla prima notte di nozze, si era concessa delle relazioni con altri uomini dopo aver messo il marito di fronte al fatto che il loro matrimonio sarebbe diventato una relazione “aperta”, in cui ogni coniuge avrebbe tollerato le infedeltà fisiche dell’altro. Comunque, anni-luce dalla comparsa nelle farmacie americane del contraccettivo orale Conovoid (“la pillola”), i rapporti sessuali extra-matrimoniali erano un rischio simile a quello che si sarebbe corso quando l’AIDS ed altre malattie avrebbero messo un freno all’avanzata del nuovo millennio. I preservativi si rompevano e il “salto della quaglia” non era certo una garanzia. Ci si arrangiava alla meno peggio tenendo un bambino indesiderato, dandolo in adozione, seguendo pessimi consigli che prevedevano l’uso di gin e una tinozza di acqua bollente o, come si apprestava a fare Yoko, praticando un aborto.
Sollazzandosi con Toshi o qualcun altro, la faccenda aveva preso una piega seria e depravata e la prudenza era stata messa da parte per godere di pochi, eccitanti attimi di fantastici orgasmi extra-sensoriali. Un condom rotto la gettò nel panico. Allarmata dal lungo ritardo, Yoko annaspava cercando ragioni per non afliggersi. Le nausee al mattino potevano essere date dall’ansia, e anche quei centimetri in più sul girovita non erano niente di grave, ma i polsi, le caviglie e le ascelle avevano un aspetto davvero buffo.
Con le stesse domande che le ronzavano continuamente in testa, Yoko aveva costruito un processo contro sé stessa, arrivando alla conclusione che le sue paure erano infondate. Ma col lento scorrere dei giorni le “sue cose” non tornavano e cominciava a vedere carrozzine e pancioni ovunque: per strada, nei parchi, in tv. Non poteva più fare finta di niente.
Quello fu il primo aborto per Yoko, ma non l’ultimo, mentre il suo matrimonio con Toshi continuava a naufragare. Anche se ad unirli restava la passione per le stesse cose: allestivano le stesse mostre, curiosavano tra gli scaffali delle stesse librerie, sghignazzavano all’unisono per le battute di un film d’essay  e mantenevano lo stesso contegno nell’assistere agli stessi concerti dei compositori classici moderni. Varese, Penderecki e Stockhausen erano i nomi più illustri, ma che dire di Illhan, Mimaroglu, Earle Browne, Adolf Weiss, Jaques deMenace ed altri? Erano illustri sconosciuti allora come lo sono ora?
 Allora il pianista John Cage, ideatore della rischiosa teoria del “pianoforte preparato” (da un’idea di Henry Cowell), era in ascesa con “4’33”, sua famosa composizione “silenziosa”. Come il più anziano Weburn, era stato anche lui allievo di Shoenberg, che asseriva: “per scrivere musica, si deve avere il senso dell’armonia”. Ma a questo riguardo Cage confessò: “Non ho alcun senso dell’armonia”. Schoenberg dichiarò poi: “Mi troverò sempre di fronte ad un ostacolo che sarà come un muro che non posso oltrepassare” e Cage ribatté: “in questo caso, dedicherò la mia vita a sbattere la testa contro quel muro”[2].
Più avanti la tecnologia avrebbe raggiunto i suoni che Cage sentiva nella sua testa e lui dovette correre ai ripari nello Studio di Fonologia di Milano per costruire un collage di registrazioni (Fontana Mix) che divenne un classico nel suo genere. In ogni caso, Cage trascorreva sempre molto tempo a New York, dove i signori Ichiyanagi sembravano due bambini nella grotta di Babbo Natale mentre assistevano silenziosamente ai suoi eleganti ed avvincenti seminari di musica sperimentale alla New School for Social Research nel Greenwich Village, pieni di neologismi tecnici quali: onda quadrata, dissolvenza incrociata, rumore bianco, EQ, envelope, tape-loop, microtono … mentre, paradossalmente, Cage tentava di ridurre la musica al suo stato primordiale.
Tra i poeti, i fotografi e gli altri “animali culturali” presenti, ricordiamo: Allan Kaprow, l’artista a cui viene attribuita l’invenzione degli “happening”; Richard Maxfield, considerato da Cage come una sorta di protetto; Angus MacLise, futuro membro fondatore e percussionista dei Velvet Underground; il pittore Frank Stella; l’architetto e gallerista George Maciunas e LaMonte Young, un tempo jazzista, ma oramai principale esponente di uno stile noto come “minimalismo”, spesso presentato in contemporanea con altri eventi, come i light-show allestiti dalla moglie, Marian Zazeela.
Gli scambi di idee, durante e dopo il corso, resero la presenza di Yoko un elemento naturale in queste attività come quella dei sassi nei fiumi, portandola ad esplorare anche la sua stessa creatività, già evidente nei saggi del Sarah Lawrence. Con solitari paragrafi di prosa avant-garde, ad esempio,  invitava il pubblico, come se stesse dando le istruzioni per una caccia al tesoro, a stendere una tela pulita sul pavimento ed aspettare che i passanti ci camminassero sopra. Oppure ci si poteva ricoprire di piselli secchi per poi toglierseli di dosso uno alla volta, mentre il “Kitchen Piece” ordinava di gettare gli avanzi di cibo su una tela appesa al muro. Il più sconvolgente consisteva nel piantare un chiodo al centro di un pannello di vetro ed inviarne ogni frammento ad un indirizzo a caso.
Nell’enorme monolocale che era la casa di Yoko e Toshi, simili giochetti, oltre a poesie di libere associazioni mentali, giochi di parole, soliloqui imbarazzanti ed ulteriori conversazioni condotte per il puro piacere di parlare, portarono a sei mesi di “happening”, pubblicizzati perlopiù dal passaparola e con un discreto successo di pubblico. L’evento più importante fu la prima mondiale di una creazione di LaMonte Young, in cui due violoncellisti eseguivano con l’archetto le stesse due note all’infinito, ma altrettanto memorabile fu il lancio di piselli di Yoko verso il pubblico, con lo scuotersi dei lunghi capelli come impercettibile accompagnamento musicale.
I meno esperti non riuscivano a non ridere di ciò che in sostanza era il concretizzarsi della teoria di Yoko (ispirata dal Dadaismo) secondo cui: “il talento non serve per essere artisti”.


[1] Eufemismo dei primi anni ’70 usato per indicare i palpeggiamenti (sindrome del deserto = mani sotto i vestiti)
[2] The Roaring Silence: John Cage, D. Revill (Bloomsbury, 1992)

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