venerdì 25 febbraio 2011

Capitolo 6 - In visita (seconda parte)


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In un tale “Laboratorio Artistico” Russel Hunter, batterista dei The Social Deviants, notò “questa giapponese intensa e prepotente che correva qua e là, dando ordini alla gente, mentre Chris Rowley se ne stava seduto in un angolo con una teiera, una tazza, una sedia e forse anche un cuscino. Aveva questo coltello e stava dividendo tutto a metà. Yoko stava allestendo una delle sue mostre e lui doveva dividere a metà tutti questi incredibili oggetti casalinghi: mezzo tavolo con mezzo sevizio da tè, e così via. Lui tagliava tutto e lei era incredibilmente arrogante. È difficile fare a metà un cuscino. Continuava a sfilacciasi e lei era davvero contrariata”[1].
Rowley, altro affiliato della stampa underground, aveva anche il compito di dipingere di nero o bianco alcuni oggetti. In particolare ricorda “vasi neri nei quali lei metteva dei messaggi per la gente, tipo “Buona giornata”. Pagò duecento sterline per quei vasi. Aveva anche un martello di vetro”[2].
Dato che questi oggetti non facevano gola a nessuno tranne qualche tizio dotato più di soldi che di sale in zucca, Ono e Cox risparmiarono per settimane con una dieta invariata di cibo-spazzatura o riso integrale e verdure che costava mezza corona (2,5 scellini) al ristorante macrobiotico di Notting Hill Gate, popolato da una fauna che attirava frequentemente i poliziotti di Scotland Yard con i cani antidroga, costringendo i proprietari a chiedere la firma degli ospiti su una dichiarazione secondo cui non erano in possesso di droghe che contravvenissero l’articolo 42 del Dangerous Drugs Act del 1966.
Yoko conosceva bene la marijuana e le anfetamine e stava cominciando a rendersi conto che le percezioni date dall’LSD variavano da viaggio a viaggio. Di solito era un’esperienza stimolante, che precipitasse nella frenesia più insensata, emergesse da un ginepraio dell’orrore, uscisse da un sogno di estrema spiritualità o ascendesse ad inimmaginabili vette di creatività.
Anche se piena di visioni dell’eterno chimicamente indotte, Yoko era abbastanza responsabile da non portarle a casa, almeno finché Kyoko era sveglia. Come accadeva a New York, di solito era Tony, e non la sua impegnatissima moglie, a nutrire e prendersi cura di una bambina che secondo molti ospiti sembrava avere un disperato bisogno d’affetto e attenzioni. Gene Mahon ricorda: “andai là una sera e Kyoko mi si avvinghiò perché parlassi un po’ con lei. Non voleva lasciarmi andare. Era una bimba triste, non sapevo come comportarmi”[3].
I genitori di Kyoko le garantivano la sopravvivenza scrivendo articoli per Arts And Artists e IT. Inoltre Yoko teneva un corso (simile a quello di John Cage alla New School For Social Research) presso la Anti-Univeristy, una scuola “alternativa” a Shoreditch, finanziata da una fondazione per la pace fondata da Bertrand Russell, filosofo e promotore di campagne contro il nucleare. Gli studenti la adoravano per il suo gergo da musicista, il suo forte accento giapponese con qualche inflessione newyorkese e, soprattutto, la sua passione per la materia.
Tuttavia, anche se una voce ben nascosta nella contabilità artistica di Yoko, si trattava probabilmente di qualcosa di più di un’incursione per massimizzare la sua esposizione pubblica come potenziale candidata delle classifiche alla stregua di Marianne Faithful.
Nastri di prova (probabilmente registrati su bobine domestiche nell’angolo con l’acustica migliore dell’Hanover Gate Mansions) di quelle che potrebbero essere descritte come classiche canzoni pop fatte di strofe e ritornelli furono inviati alla Island, un’etichetta indipendente alla ricerca di materiale “etnico” interessante.
Ciò che gli addetti agli artisti e repertori della Island abbiano fatto di quello sforzo non è dato sapere, ma la fama fulminea da Top 20 non era un’idea così azzardata in un periodo in cui venivano offerti contratti musicali a gente del calibro dell’ineffabile Tiny Tim (tutto falsetti evirati ed eccentricità con occhi da cerbiatto), Moondog e Wild Man Fisher (un cantante di strada rauco e psicotico di Los Angeles).
Nei mesi che ruotavano intorno all’Estate dell’Amore del 1967, l’offerta di sesso e spinelli erano diventati gesti di amicizia dallo spirito libero, mentre gli effetti psicotropi dell’LSD (che presto sarebbe diventata illegale) pervadevano il Fillmore East a New York, il Paradiso ad Amsterdam ed il Middle Earth a Londra, dove “sbandati” con gli occhi a girandola si rotolavano avvolti da luci stroboscopiche, fumi di incenso ed altri ausili audiovisivi che erano parte integrante dell’esperienza psichedelica simulata.
Tutto ciò fu superato da eventi più importanti come l’inaugurazione di IT al Roundhouse ed un altro gala di beneficenza, il Fourteen Hour Technicolor Dream del 29 aprile 1967 all’Alexandra Palace. Son et lumière venivano proiettati sulle cavernose pareti e sui palchi le band (ormai non più gruppi) suonavano senza mai fermarsi. Uno dopo l’altro si alternarono su dei palchi posti agli estremi dell’enorme sala espositiva: The Pink Floyd, The Move, Tomorrow, John’s Children, The Flies (che, si dice, urinarono sulla prima fila), The Soft Machine, e praticamente chiunque altro, per intrattenere hippy in trance e altri beatnik al passo coi tempi, con le gambe accavallate o impegnati nel “ballo dell’imbecille”.
I visitatori erano anche deliziati dallo spettacolo di una modella, stesa da un narcotico a caso, seduta su una scalinata con un enorme faro che la illuminava. In una rivisitazione di “Cut Piece”, era stato dato un paio i forbici dotate di microfono a ciascun membro del pubblico, che si dirigeva verso l’onnipresente Yoko per tagliare via i suoi vestiti.
“Spesso si manifestava una certa violenza nei confronti di Yoko quando eseguiva queste performance” rimugina Keith Rowe degli AMM (un gruppo che aveva più a che fare con John Cage che con i The Move), “ l’ho trovato piuttosto spiacevole, un’emozione forte. La violenza contro di lei era quasi incontrollata. Aveva contro il razzismo ed il sessismo. Anche oggi probabilmente sarebbe illegale salire su un palco e spogliare qualcuno, ma con un paio di forbici amplificate era concesso”[4].
Non tutti sono stati colpiti dal talento di Yoko o dal suo coraggio nel rimanere fedele al proprio personaggio sul palco. John Hopkins, un altro amico di IT, ha commentato con una smorfia: “Gli happening di Yoko Ono erano noiosi, lei è l’artista più noiosa che abbia mai incontrato”[5].
Tanto per citare una delle massime fai-da-te di Picasso “Non importa cosa dicono, purché parlino di te”[6].
Certamente c’era stato un gran parlare di Yoko da quando era arrivata a Londra ed il dibattito sulla sua influenza in quel periodo resta aperto ancora oggi.
Era una Tracey Emin du jour o era l’equivalente artistico di ciò che fu Screaming Lord Sutch[7] per la politica britannica? Questi pensieri furono assimilati durante una spedizione nel 1967 al Bluecoat Chambers di Liverpool dove il pubblico, estraneo al sangue freddo della capitale, si mise a raccogliere i pezzi di un vaso che lei aveva appena rotto. Inoltre spazzò il palco, masticò un sandwich ed invitò i presenti a saltare dalle scale. A Spencer Leigh (ancora ignaro del suo futuro di presentatore alla BBC Radio Merseyside) fu chiesto di bendare completamente Yoko, ma, quando fu del tutto avvolta dalle bende John Gorman, della band multimediale Scaffold urlò: “Ti vogliono al telefono!” e tutti si misero a ridere.
Però all’Indica, nel novembre precedente, nessuno trovò nulla da ridire, ad esempio, su una scacchiera completamente bianca, una mela prezzata 200£ ed altri bizzarri oggetti appartenenti a “Unfinished Paintings and Objects” di Yoko Ono, che, all’anteprima aveva catturato l’attenzione di un babbeo col portafoglio gonfio di soldi.


[1] Days In The Life: Voices From The English Underground 1961-71, Jonathon Green (Heinemann, 1988).
[2] Days In The Life: Voices From The English Underground 1961-71, Jonathon Green (Heinemann, 1988).
[3] Days In The Life: Voices From The English Underground 1961-71, Jonathon Green (Heinemann, 1988).
[4] Lost In The Woods, Syd Barrett And The Pink Floyd, J. Palacios (Boxtree, 1998)
[5] Lost In The Woods, Syd Barrett And The Pink Floyd, J. Palacios (Boxtree, 1998)
[6] Playpower, R. Neville (Jonathan Cape, 1970).
[7] Musicista ed aspirante politico inglese (1940-1999), fondatore del partito “Official Monster Raving Loony Party” (Partito ufficiale dei mostri deliranti pazzi). (N.d.T.)

lunedì 21 febbraio 2011

Capitolo 6 - In visita (prima parte)

“All’epoca ero a New York, l’ombelico del mondo dell’arte, e pensai 'perché mai dovrei andare a Londra?'”

Come avvenne per Madonna ed il suo primo marito Sean Penn, Yoko era lo specchietto per le allodole e Tony faceva parte del pacchetto. Fu così che quando la nave partita da New York attraversò lentamente il Solent verso Southampton i due, con Kyoko, anche se distrutti dal viaggio, percepirono l’inizio di un risveglio e un guizzo di aspettativa.
Prima che quella giornata d’estate inoltrata finisse, la famiglia stava già disfacendo i bagagli a Londra, in casa di Mario Amaya, editore di Arts And Artists, il periodico sponsor del simposio. Dovettero dormire sui divani, sul pavimento e in camere vuote, finché non fu disponibile un appartamento di nove stanze ad Hanover Gate Mansions, davanti a Regent’s Park[1]. La decisione di restare in Inghilterra avvenne in maniera naturale, in seguito all’ouverture di gallerie in cui Yoko esponeva ed ad un continuo flusso di inviti da parte di persone affamate di conoscere i suoi happening Fluxus. “Mi si presentò questa incredibile scena artistica” racconta stupita Yoko “l’intera situazione era, dal punto di vista di un’americana, molto underground, molto intima, di altissima qualità. C’era una strana luce nell’aria di Londra ed era fantastica. Una volta respirata quell’aria ho pensato: ok, ora sono qua. E non mi sono più voltata indietro”[2].
Tra i vari piaceri della vita londinese c’erano inoltre: un ritmo di vita più tranquillo, i soldi che sembravano quelli del Monopoli, le autostrade infinite, solo due canali tv, pacchetti di sigarette da dieci, Coca Cola senza ghiaccio, vigili urbani che ti chiamavano “tesoro” e pub che, a differenza del Louie’s Bar nel Village, erano qualcosa di più di un semplice posto dove ubriacarsi.
Per qualche settimana Kyoko fu costretta a vivere lontana dai genitori, poiché non c’era abbastanza spazio nella casa del pittore Adrian Morris e di sua moglie, che aveva incontrato Yoko ad un party di qualcuno nel giro di Arts And Artists. Quando Morris aveva iniziato la conversazione chiedendole che tipo di artista fosse, la risposta di Yoko “Mi occupo della musica della mente”, la sua fama di non essere del tutto arrogante ed il generale clima di giovialità indussero Morris ad invitare i Cox per un fine settimana a casa sua, due giorni che diventarono poi tre mesi.
“Mi sono divertito con loro” ricorda con un sorriso Adrian “ed ero molto preso da quello che stavano facendo. Una volta tornai a casa e, diretto in cucina attraverso il giardino sul retro, la vidi ascoltare un orologio con lo stetoscopio. All’epoca aveva allestito una mostra intitolata “Time Piece”. I reporter le scattavano foto e mi resi conto di quanto fosse unica. Un’altra volta, in cucina, scherzando, le ho dato un colpetto sulla testa e l’ho chiamata “piccola Yoko”. Mi ricordo la sua risposta come se fosse oggi: “Tu mi chiami piccola, ma io ho un universo nella mia testa”[3].
Morris ricorda con piacere anche la cucina di Yoko, soprattutto il suo sgombro stufato su un letto di fagioli. Durante la loro permanenza, Yoko e Tony, unirono l’utile al dilettevole visitando i luoghi di maggiore interesse: la cattedrale di St. Paul, il Big Ben, il ponte di Westminster ed i nostri fantastici poliziotti, che non avevano mai avuto occasione di osservare in precedenza. Un pomeriggio di quell’autunno caldo e assolato le due coppie andarono con Kyoko allo zoo e la gita è testimoniata da una foto di Yoko davanti ad un gruppo di babbuini.
Naturalmente i Morris furono i benvenuti nell’appartamento liberty di Hanover Gate Mansions dopo che questo fu arredato in modo minimalista con le pareti e i soffitti dipinti di bianco. L’idea era che se la mente non fosse stata assalita dai colori, si sarebbe potuto essere più creativi. Yoko e Tony portavano avanti il loro progetto di celluloide sui sederi, che ora aveva un titolo provvisorio: Four Square. Tra le sue nuove star c’era il giornalista del Times Hunter Davies.
L’interesse della stampa fu ulteriormente attratto dal debutto sulla scena inglese di Yoko presso il Roundhouse auditorium (più simile ad un fienile) di Chalk Farm, dove presentò, oltre ai già affermati “Bag Piece” e “Cut Piece”, nuovi concetti come “Line” (disegna una linea e poi cancellala), “Wall Piece” (volontari dal pubblico si univano a Yoko nello sbattere la testa su un muro) ed il gran finale, una specie di gioco di parole per associazione mentale in cui Yoko urlava qualcosa al pubblico pagante che rispondeva blaterando indistintamente qualsiasi cosa passasse nelle loro menti, per cinque minuti.
Era invece gratuito l’happening di Trafalgar Square in cui, ricorda il disegnatore di copertine Gene Mahon, “Yoko voleva stare in un sacco nero e chiamò me e un altro di nome Ed Klein a farle da guardie del corpo”[4]. Un’altra trovata del genere, svoltasi sempre a Trafalgar Square, fu quella di avvolgere le statue dei leoni con della carta marrone, attirando più o meno la stessa attenzione dell’ex impiegato statale Stanley Green, che passeggiava ogni giorno avanti e indietro per Oxford Street, con un cartello che dichiarava ai pochi disposti a leggerlo il suo credo in: “Meno libidine da meno proteine”.
Però, mentre Green non era esattamente l’alba dell’era dell’Acquario, Yoko era “cool”. Gli annunci dei suoi eventi riempivano regolarmente la quarta pagina del quindicinale International Times (IT), l’organo più underground di Londra (e, di conseguenza, di tutta l’Inghilterra), che nell’autunno del 1967 avrebbe fatto scalpore con la foto di Frank Zappa seduto sul water. Prima della fine dell’anno IT arrivava con le sue notizie su ciò che accadeva nella Swinging London fino agli scolaretti della provinciale e nascosta Dullsville. Questo disturbava il crooner Frankie Vaughan fino al punto da lanciare una campagna contro la diffusione della sottocultura hippy. “Gli hippy sono i parassiti della società”[5], dichiarò ad un congresso gettando un fiore lanciatogli da uno di quei parassiti fra il pubblico.
Col Vietnam, le droghe, Che Guevara, la liberazione sessuale, i cartoni violenti e le proteste studentesche europee come comuni denominatori, i numeri di IT si occupavano più del rock (che solo le menti elette potevano apprezzare) che del volgare pop. In una tale ricchezza di affermazioni eccessive, non mancavano certo le dichiarazioni incoscienti, come ad esempio definire Arthur Lee dei Love “l’unico musicista moderno senza peli sulla lingua” e “Charlie” Manson “un innocuo eccentrico”. Un dolce fiore uscito dalla macchina da scrivere del dj John Peel (allora una delle persone migliori che fossero mai esistite) per la sua rubrica “Perfumed Garden” fu: “Ci sono passerotti, fontane e rose nella mia testa. A volte non ho tempo per amarvi. Questo è profondamente sbagliato”[6].
Il giornale prese il volo con un ricevimento in una fredda serata di ottobre del 1966 al Roundhouse, dove proto-hippy passeggiavano tra celebrità del calibro di Michelangelo “Blow Up” Antonioni (il regista più artistico di metà anni ’60), la pop-star Marianne Faithful (con un incrocio tra il vestito di una suora e una minigonna ascellare) ed altri potenti amici di Barry Miles, occhialuto e magrissimo direttore di IT.
Altre mille persone che parteciparono alla festa ricorderanno le zollette di zucchero offerte che potevano contenere o meno LSD, l’enorme vasca da bagno piena di gelatina, i light-show ectoplasmatici che facevano parte dello spettacolo pieno di feedback dei The Pink Floyd e dei The Soft Machine (in un’epoca in cui l’articolo determinativo non era stato ancora rimosso dai loro nomi). Questi ultimi furono interrotti a metà show da quello che si rivelò un semplice spettacolo in co-partecipazione col pubblico di Yoko Ono. Tutte le luci si spensero, a parte le spie degli amplificatori dai quali uscì la sua voce che diceva: “Toccate la persona accanto a voi”. Poi tornò la luce e i The Soft Machine ripresero il loro spettacolo.
Barry Miles, che gradiva essere chiamato per cognome, fu deliziato sia dallo spettacolo che dal successivo andamento dei grafici di bilancio di IT.  La rivista era nata nello scantinato dell’Indica Gallery, accanto al negozio di oggettistica avant-garde dall’aspetto mistico di Ham Yard, appena fuori da Piccadilly Circus. Era stato aperto nel gennaio 1966 da Miles e John Dunbar (primo marito di Marianne Faithful) ed invitava artisti di talento, con o senza speranze, ad usare la zona destinata ai workshop della galleria fino al punto che Eric Burdon degli Animals, che viveva al piano di sopra, lo definì “l’ufficio di Yoko Ono”[7].



[1] Oggi l’intero edificio è diventato una moschea.
[2] A Paul Trynka.
[3] John Ono Lennon, R. Coleman (Sidgewick & Jackson, 1984)
[4] Days In The Life: Voices From The English Underground 1961-71, Jonathon Green (Heinemann, 1988)
[5] Playpower, R. Neville (Jonathan Cape, 1970)
[6] International Times, 17 maggio 1967.
[7] Don’t Let Me Be Misunderstood, E. Burdon e J. Marshall Craig (Thunder’s Mouth, 2001)

venerdì 18 febbraio 2011

Capitolo 5 - L'abitante del Village (seconda parte)


Consapevole ancora una volta del rischio che stava correndo, Yoko Ono, scalza, camminò sulle assi del palco, al centro dell’inquietante attenzione di quella che sembrava la gigantografia di un pubblico silenzioso e immobile. Aveva “rabbia e turbolenza nel cuore”[1] ed un paio di enormi forbici con le quali dare inizio al “Cut Piece”, fondamentalmente l’invito a coloro che stavano seduti a salire sul palco, tagliare un pezzo del suo vestito e passare le forbici alla persona dietro di loro in quella che, in teoria, avrebbe dovuto essere una coda ordinata. Tutto qui. Non era esattamente come doversi unire ai ritornelli di “Quel mazzolin di fiori” su richiesta di un animatore urlante, ma furono in molti a dimostrare una qualche reticenza nello spogliare Yoko finché, rimasta in mutande, dovette coprirsi con le mani il decolleté.
“Fu un’esperienza spaventosa” ricorda “e un po’ imbarazzante. Fu qualcosa per cui io insistetti, secondo la tradizione zen del fare ciò che ti imbarazza e vedere come ne esci e come riesci a gestirlo”.
Di per sé il “Cut Piece” era meno divertente di come lo percepì il pubblico. Cos’era? Mi sono divertito? Devo applaudire o fischiare? Cosa fanno gli altri? Se sui giornali non ci fu che qualche vago commento, il passaparola garantì almeno una certa riuscita positiva per i futuri eventi organizzati da Yoko in luoghi meno prestigiosi. Attirò anche l’interesse di agenti come Norman Seaman, il cui nipote Fred sarebbe stato assunto da Yoko in un futuro all’epoca inimmaginabile.
“'Per l’arte farei quasi tutto'. Ecco come mi sentivo in quel periodo”[2]. Camminando su un’altra fune senza rete di sicurezza, Yoko trovò anche un piccolo spazio agli estremi del jazz avant-garde, attraverso gli esercizi vocali che dovevano molto al libero mormorio e agli strani raggruppamenti tonali di Schoemberg e Penderecki (nel cui lavoro più noto, Devils Of Loudon, c’è Satana che sghignazza dalle viscere di una suora) oltre che alla seitoha (musica classica giapponese).
Ad un livello di forza delle vibrazioni sonore, parte delle sue opere somigliava molto ad alcuni pezzi popolari classici. Ai Classical Brit Awards di ITV, trasmessi il 1 giugno 2003, l’eccezionale interpretazione dell’aria “Anch’il mar par che sommerga” di Vivaldi data dal soprano trentasettenne Cecilia Bartoli avrebbe potuto essere presa, con la macchina del tempo, da uno dei recital di metà anni ‘60 di Yoko, in compagnia di ottimi jazzisti, come Ornette Coleman. Yoko usava la sua voce come primo corno, complementare allo spuntare pericoloso qua e là di urletti del sassofono, gemiti, vibranti belati e fitti dialoghi in giapponese.
La sua flessibilità vocale era anche simile a quella di Subbulaksmi, una diva indiana spesso sui palchi occidentali, e, più ancora, a quella di Hagiwari, la cantante cieca virtuosista del koto, insignita del Juyo-Mukei-Bunkazai, una delle più alte onorificenze culturali concesse dal governo giapponese.
Poiché nessuno aveva ancora sentito né Subbulaksmi, né Hagiwari, il culto di Yoko aumentava nel Greenwich Village, con agli annessi e connessi di studenti curiosi e bohémien del fine settimana con le fronti aggrottate tra un centro d’arte e una sala per recital, incerti su quale fosse la fine delle prove e l’inizio della prima canzone. Sfidavano le definizioni succinte, ma venivano pian piano accettati in modo consapevole e consenziente (anche se qualche ascoltatore dovette bloccare un pensiero impuro alla maniera del finale de “I vestiti nuovi dell'imperatore” con la tacita domanda: “Come fa questa roba a piacere a qualcuno?”). Dopo gli applausi educati alla fine del baccano, le luci della notte davano l’opportunità, dopotutto, di chiacchierare su quanto “interessante” fosse tutto ciò, questa “musica spontanea”, questi “dipinti sonori” che erano una strada per fare i nomi di Cage, Varese e Berio ed assumere un atteggiamento di compassionevole superiorità sia verso coloro che “non capivano” sia nei confronti di quanti l’avevano apprezzato per le ragioni “sbagliate”.
Il Jazz, come lo definì scherzando Frank Zappa, era “la musica dei disoccupati” e, anche se Yoko era perfetta per soddisfare le richieste di Ornette Coleman ed era ormai una celebrità come artista di performance, i guadagni ricavati da queste serate non risolvevano certo il problema quotidiano di dover provvedere al marito e alla figlia. Lentamente lei e Tony si ritrovarono a dover combattere con problemi di liquidi. Niente di troppo grave, solo una costante corrosione patrimoniale, fatta di alti e bassi. Yoko addirittura mise da parte l’orgoglio e chiese di poter tornare a lavorare al Paradox e, nonostante dovesse ancora pagare l’affitto negli appartamenti precedenti, la famiglia continuava a trasferirsi in case sempre più economiche in poche ore si riducevano come se qualcuno avesse tirato una granata in ogni stanza. Avvolto in una spirale ferrea di uscite di sicurezza, l’edificio sembrava tremare ogni volta che i treni della New York Transit Authority  passavano rumorosamente.
Infine, nella cupa dimora che trattavano come quello che nei Favolosi anni ’60 sarebbe stato definito una zona “cuscinetto”, i vecchi problemi esplosero in notti insonni di discorsi ripetitivi e ansiosi. Una mattina Yoko e Kyoko si trasferirono allo studentato della Judson Memorial Church, sistemazione provvisoria per studenti e artisti di ogni genere e nazionalità. Affitto ridotto, servizi comuni e il Village a portata di mano, in più era possibile fare domanda per restare anche oltre il periodo prestabilito di un anno.
Dopo essersi sistemata, Yoko concentrò le sue varie frustrazioni e la sua fastidiosa imprevedibilità nella ricerca di uno stratagemma che le evitasse di diventare un venerabile “personaggio” del Greenwich Village come Moondog[3] o che almeno le risparmiasse una sopravvivenza fatta di costanti calcoli mentali per poi mangiarsi tutto lo stipendio (che, tra l’altro, era inferiore a quello di ogni altro operaio medio). Una riunione di brainstorming con Tony aveva dato vita al “Bagism”[4], in cui una coppia doveva chiudersi in un grosso sacco nero, svestirsi, rivestirsi l’un l’altro e riemergere. In alternativa potevano restare immobili o avvicinarsi a quelli che stavano fuori, all’oscuro di tutto.
Come per il “Cut Piece”, anche il “Bagism” concesse a Yoko un breve periodo di fama fuori dal Greenwich Village, ma ottenne poco a livello economico. Sembrava così sconfitta che preferiva guardare alle vittorie future ma, in un certo senso, il peggio doveva ancora venire. Comunque da questo momento di risacca la maestosa marea iniziò lentamente a risalire.
Il “Bagism” aveva provveduto a ristabilire un po’ di equilibrio e Tony investì abilmente in duecento azioni artistiche di Yoko. Anche se l’equazione non sarebbe stata la stessa di Wagner e il Re Ludovico o Tchaikovsky e Nadezhda von Meck, Cox scoprì di avere un certo talento per convincere patroni disponibili del genio di Yoko, prima di offrire loro, con cauta confidenza, l’opportunità di fare fortuna alle radici di un’industria in crescita.
La vendita di trenta di queste azioni, del valore di varie migliaia di dollari, permise ai Cox di aprire la loro personale galleria, Is-Real, in alcuni locali commerciali vuoti nel Greenwich Village, ed iniziare i provini e le riprese di un film fatto di primi piani di una miriade di fondoschiena nudi, un paio per ogni giorno dell’anno. Non era ancora finito, ma in fase di pre-produzione, sulla soglia di Is-Real svolazzò un invito per Yoko ad un simposio sulla “Decostruzione nell’arte” a Londra, a partire dal 28 settembre 1966.



[1] The Guardian, 15 settembre 2003
[2] A Paul Trynka
[3] Il quale stava per stabilirsi in Germania, essendo ormai un compositore di fama internazionale
[4] Concepito inizialmente come “Stone piece”

martedì 15 febbraio 2011

Capitolo 5 - L'abitante del Village


“Mi sentivo come se stessi comunicando con tutte le divinità. Speravo di risvegliare quell’elemento nella gente, quella parte del loro cervello, invece di sentirli dire: “Oh-oh! La ragazza seduta sul palco è nuda”, ma non penso di esserci riuscita.”

Il secondo matrimonio di Yoko cominciò a prendere la brutta piega del primo. Ben presto Tony cominciò ad essere raramente a casa, tanto che Yoko trascorreva più tempo con Alfred Wunderlick, un amico di famiglia, suo compagno alla scuola d’arte.
Per la metà del 1964 erano già iniziate le pratiche per la separazione. Yoko fu ritenuta negligente sia come moglie che come madre e Tony portò Kyoko a mezzo mondo di distanza da lei, per la precisione al Greenwich Village di New York dove le cose erano diverse, ma uguali. Lasciando lo spazio aereo del Giappone, Cox slacciò pensoso la cintura di sicurezza: non poteva evitare di pensare a certa gente del Village nei loro tipici atteggiamenti, nelle stesse azioni che svolgevano l’ultima volta che c’era stato. Sicuramente avrebbe rivisto ogni giorno John Cage che faceva la spesa o osservava i tornei di scacchi all’aperto a Washington Square. Col suo strano aspetto da moribondo, quale era in realtà, Edgar Varese ingurgitava ancora il suo caffè turco alla finestra del Romany Marie’s cafè.
Se Varese era il re sconosciuto del Village, Louis Thomas Hardin, alias Moondog, era un principe bastardo, con la sua “immagine” migliorata dalla cecità, indumenti ricavati da lenzuola dell’esercito e una sorta di elmetto che lo faceva apparire come un incrocio tra un druido e un condottiero scandinavo. Era un compositore che aveva costruito i suoi strumenti e con la moglie Suzuko (che pizzicava il samisen, simile al liuto) suonava per qualche spicciolo al suo solito posto per strada, in Times Square.
Oltre ogni dubbio, si poteva ben supporre che Moondog sarebbe stato un personaggio del Village vita natural durante, al contrario del cabarettista Lenny Bruce, che beveva roba ben più pesante del caffè turco di Varese tutte le sere al Louie’s Bar, un ritrovo con la segatura per terra e il juke-box.
Bruce stava diventando famoso in tutto il paese per un tipo di humour (e non humour) che consisteva nell’uso di parolacce nel ristretto codice giovanile, in monologhi dai titoli: “Impiegati Ubriachi”, “Il Grande Dago di Don” e “Come far rilassare i vostri amici di colore alle feste”. Un tempo era ospite fisso al Bitter End, un club che era diventato ciò che era quando il movimento per i diritti civili si era fuso con le canzoni folk sotto l’etichetta di “protesta”. Tra gli esponenti del genere presentati lì e in altri luoghi importanti del Village c’erano Woody Guthrie, Pete Seeger, Peter, Paul and Mary, Phil Ochs, Tim Rose e colui che sarebbe diventato il più famoso di tutti: Bob Dylan.
C’era anche spazio per i disparati gusti di Bruce: il bardo beatnik Allen Ginsberg, i Four Seasons, Chuck Berry e Jerry Van Dyke, fratello dell’attore comico Dick. All’intrattenimento non ufficiale provvedeva il proprietario del Bitter End, Paul Colby, raccontando bonariamente infiniti aneddoti su Dylan che assillava le cameriere o su Tim Rose “che aveva forzato il mio armadietto dei liquori e aveva bevuto fino a perdere i sensi”[1], sottintendendo comunque che un tale comportamento era prerogativa delle stelle, anche se di un tipo di stelle “il più lontano possibile dal mainstream”.
Tony Cox, comunque, era meno incline a frequentare il Bitter End, il Louie’s Bar o il Romany Marie’s, impegnato a costruirsi una rete di contatti tra chiacchiere isteriche, lunghi imbonimenti e compiaciute pacche sulle spalle alle soirées e alle prime dell’elite artistica del Village. Per quanto riguarda il nostro uomo e il Giappone, veniva assalito da domande sulla scena del posto con inevitabili e specifici riferimenti a Yoko, le cui copie importate di Grapefruit erano in vendita in poche librerie e i cui dipinti ricoperti di nero erano ancora alle pareti del trendy Paradox (ormai ristorante macrobiotico).
Fatidicamente, il vecchio mentore di Yoko, Gorge Maciunas, era rimasto entusiasmato da lei in quanto portavoce principale e organizzatore dell’esclusiva ala di sopravvissuti del Fluxus, non tanto un gruppo quanto un “collettivo” (a Colonia ed altre città della Germania Ovest, così come a New York) votato ad abbattere le barriere tra l’Arte  e la “vita vera”. Al loro livello più becero, i concetti erano in genere più intriganti delle loro esecuzioni, in questo rimaneggiamento Dada con pronunciate sfumature di futurismo, Cabaret Voltaire, action painting, Pop Art e, soprattutto, operazioni casuali alla Cage.
C’era anche un forte gusto per l’autodistruzione, nato dall’artista anglo-tedesco Gustav Metzger, che iniziava ad insinuarsi anche nella musica pop, soprattutto in Gran Bretagna dove The Who e The Creation chiudevano i loro concerti, rispettivamente, sfasciando la strumentazione e schizzando vernice su una tela che faceva da sfondo, cosa dovuta più a Tony Hancock che a Jackson Pollock.
Con l’ex alunno del Moseley Art College, Roy Wood, al timone creativo, i The Move avrebbero influenzato le coscienze del regno alla fine del 1965 con un programma in cui il cantante Carl Wayne sul palco abbatteva con un’accetta le effigi dei leader politici mondiali, per poi rivolgere la sua attenzione a delle tv che implodevano. Se questa non è Arte, allora cos’è?
I gusti di George Maciunas, di Tony Cox e, al suo ritorno a novembre, di Yoko Ono non sembravano coscienti di una qualche integrazione seria dell’arte moderna nel pop (invece che il viceversa della Pop Art) quando, dopo una performance inaugurale, a Wiesbaden nel 1962 sotto l’egida dell’artista grafico Wolf Vostell, Fluxus si manifestò principalmente in eventi più cospicui che mai, col tentativo di coinvolgere gli spettatori ad un livello inconscio e non più razionale. Tuttavia, di quando in quando, qualche spettatore scocciato avrebbe anche potuto liquidarli con una mezza risata, con tutto quel mormorare, strillare sciocchezze, fare macello con la vernice, fare un baccano infernale e comportarsi in modo osceno come, per esempio, in una famosa, rumorosa e abbondante defecazione sul palco.
Fluxus era ormai diretto verso la stessa impasse elitaria del movimento meno coeso di cui aveva fatto parte Yoko prima della deprimente serata alla Carnegie Hall. Personalità mascherate da principi, bisticci interni da crociate e la combriccola restava nell’oscurità, non emergeva alla luce del sole perché, tacitamente, l’accettazione pubblica era temuta dal pesce grosso nella piccola pozzanghera di Fluxus. “Fluxus è stato il gruppo più sperimentale in assoluto della sua epoca”, ha dichiarato Yoko sorridente e con una punta d’orgoglio, “chiunque facesse del lavoro sperimentale ci conosceva e prendeva idee da noi per renderle commerciali. Le loro cose vendevano, ma le nostre erano troppo oltre per essere vendute”[2].
Per l’epoca, comunque, Yoko era nel suo habitat naturale e divenne rapidamente il corpo e l’anima del movimento Fluxus. Mentre nel negozio a due fermate di metropolitana da lì era soltanto una cliente anonima, nelle immediate vicinanze del Greenwich Village diventava “la Somma Sacerdotessa dell’Happening”, il cui ritorno era stato segnato da una collaborazione in sordina con Angus MacLise, Music For Dance, recuperata molto tempo dopo per l’ultima, inimitabile esecuzione ai tamburi di MacLise, “come una poesia”, secondo l’amico Piero Heliczer[3].
La droga offuscava i particolari deliri nell’opera di Angus e Yoko, le disgrazie portarono molta insicurezza tra gli “illuminati” e gli altri pesci piccoli, ma il peccato cardinale stava per palesarsi. La disperazione visibile era un promemoria troppo duro della caducità dell’ispirazione artistica e della celebrità, anche tra i negozi chiusi e introspettivi della folla artistica del Village.
Mentre Yoko cercava di non far vedere il suo sforzo in pubblico, i suoi crucci privati vennero fuori dietro nello studio dove vivevano Tony e Kyoko e dove si era sistemata prima che diventasse troppo pesante andare avanti come se nulla fosse successo a Tokyo. La situazione era stata congelata per un po’, alla fine erano di nuovo una famiglia, Yoko dormiva con Tony e lui faceva il “casalingo” mentre lei lavorava alla sua carriera, anche se ad ogni atto creativo erano connessi una dozzina di processi meccanici. Gran parte delle giornate passavano scrivendo lettere di supplica ai direttori delle gallerie, ai giornalisti, alle personalità mediatiche e ad artisti più famosi.
Tutto il suo tartassare venne ripagato da una lunga intervista sulla rivista The Villager accompagnata da un ottimo articolo. Com’era solita fare allora, la presa di Yoko alle cose pratiche (sia a livello di budget che fisico) si allentava quando doveva confidarsi col blocchetto dei giornalisti. Tuttavia, questo le procurò un posto nella sezione artistica del New York Times. Andava bene qualsiasi cosa, pur di pubblicizzare il suo ritorno alla sala piccola della Carnegie Hall, il 21 marzo 1965.


[1] The Bitter End: Hanging Out At America’s Night Club, P.Colby e M. Fitzpatrick (Cooper Square Press, 2001)
[2] Record Collector, giugno 1992
[3] The Velvet Underground Companion, A. Zak (a cura di), (Omnibus, 1997)

giovedì 10 febbraio 2011

Capitolo 4 - La divorziata (seconda parte)


Si trattava di Tony Cox, un newyorkese occhialuto di ventitrè anni e dalla lingua lunga che, come studente d’arte, aveva suonato il sax in uno dei complessi jazz di Lamonte Young. Attraverso Young e i suoi soci, Cox sapeva tutto di Yoko ed una delle ragioni per cui era volato in Giappone era poterle parlare, con l’idea di scrivere il primo articolo tutto dedicato al suo avanguardismo.
Stupita dalla buona volontà di questo ragazzo (che parlava fluentemente il giapponese ed era abbastanza preso dal fascino della donna più anziana da continuare a farle visita), Yoko gli spiegò che non si sarebbe più dedicata a progetti a lungo termine. Come avrebbe potuto? Infatti, anche se non era una studiosa di latino, seguiva la massima di Seneca secondo cui “pars sanitatis velle sanari fruit”1. Tony pensava anche che sarebbe stato meglio ridurre la sua assunzione di farmaci e fu in gran parte grazie alla sua insistenza con i medici che a Yoko fu concesso di rientrare nel mondo esterno prima del previsto.
Tony divenne un ospite fisso a cena dagli Ichyanagi che ai suoi occhi erano ormai due amici che un tempo erano stati amanti. Soprattutto Yoko era piuttosto sincera su quel matrimonio tenuto insieme soltanto dalle pressioni dei genitori. Ci furono lunghi e pericolosi attimi tra Cox e lei quando suo marito si allontanava dalla stanza, ma Toshi provò più stupore che rabbia quando Tony prese il suo posto nel letto di Yoko. Per un po’ i tre divisero l’appartamento come in un menage à trois, ma una discussione sull’organizzazione finanziaria portò Toshi a trovarsi un’altra sistemazione.
Quando Yoko e questo Cox comparvero mano nella mano in pubblico, Keisuke e Setsuko riferirono quest’ultima follia ai genitori che, castigando e disapprovando, dissero a Yoko di fare subito la pace con Toshi, anche se la sentenza provvisoria di divorzio era già stata emessa. Le cose si complicarono ulteriormente quando Yoko rimase incinta di Tony e non fu affatto tormentata da risentimento e paura. Stavolta voleva tenere il bambino e prendersene cura.
Una possibile opzione era quella che il concepimento fosse avvenuto durante un viaggio a Londra, una città dove i due sarebbero tornati spesso nei quattro anni a venire. Nel 1962 la comunità artistica britannica era ammorbata dai suoi “Angry Young Man” (Edward Middleditch, John Bratby e Derrick Greaves, tra gli altri) le cui pennellate da tinello di tuguri domestici e sordidi scenari cittadini non erano esattamente ciò che avreste appeso sopra il caminetto. Invece la novità scottante erano gli incerti esperimenti della Pop Art, che qualcuno pronosticò come nuova  moda, ma che l’establishment artistico disprezzava.
Cogliendo un pizzico del radicalismo culturale che sarebbe esploso nei “Favolosi anni ’60”, tra i suoi pionieri ricordiamo: Peter Blake, Richard Hamilton e Eduardo Paolozzi, originario di Edimburgo. Lo scopo era quello di riportare nella pittura l’ironia e l’attualità, attraverso il paradosso del fascino autentico della chiassosa cultura-spazzatura e del manieristico gozzovigliare di grandi cartelloni pubblicitari, riviste come Tit-bits, True Confessions ed Everybody’s Weekly, evasioni di terrore cieco per “Cose” che vengono dallo spazio ed altri artefatti del secolo della Coca Cola, solitamente liquidati come sciocchi, volgari e falsi nei loro giallo-mostarda e rosso-pomodoro.
Per le loro ricerche gli artisti Pop da entrambi i lati dell’Atlantico ascoltavano avidamente la Top Twenty del cambio di decennio, intasata com’era di singoli da un passaggio e via, tormentoni dance e, arrivata proprio in quel momento, la futilità insipida e tutta americana dei bei ragazzi della porta accanto come Bobby Vinton, Bobby Vee e Bobby Rydell, tutti lacca per capelli e innocenti sorrisi a mezza bocca.
Per il momento questo era tutto l’interesse di Yoko verso la musica pop, anche se non è molto. In un certo senso, però, era stata più che consapevole della Pop Art in genere quando viveva a Chambers Street e, grazie al “padrino” dell’ala americana, i barattoli di minestra, le scatole di detersivo Brillo, schermi di seta di icone popolari e la filosofia delle strisce di fumetti vennero compendiati in un intervista. Andy Warhol era solo un semplice veicolo con scarse informazioni biografiche, con un bagaglio di esperienza e motivazioni, ma era proprio questo il punto. “Non c’è niente da spiegare o da capire”[2], sarebbe diventata una delle affermazioni (forse neanche tanto)  superficiali più citate di Wharol.
“Andy Warhol usava tutti simboli familiari nei suoi lavori” spiega Yoko “ed Elvis era allo stesso livello della minestra Campbell o di Liz Taylor. Solo perché li ha usati come simboli, questo non significa che gli interessassero”[3]. E non interessavano nemmeno a Yoko che, anche se era nella posizione per farlo, aveva deciso di non farsi risucchiare dal vortice della Factory, residenza privata e centro d’arte di Warhol a due isolati di distanza, e di altri luoghi sinonimi del suo ottimo impatto sui primi anni ’60.
Warhol avrebbe prodotto film interessanti ma noiosi come Couch e Chelsea Girls che erano, a mio parere, una Pop Art parallela all’opera di William Burroughs, scrittore principale della Beat Generation, che non solo tentò ma piuttosto si buttò a capofitto nei film sgranati (come Ghosts At No.9 e Towers Open Fire) vagamente divertenti, ma più che altro dei incomprensibili.
Negli ultimi mesi di gravidanza, Yoko mise mano ad entrambi i campi quando le fu commissionato di comporre la colonna sonora per un altrimenti dimenticato film di sei minuti, Love, fatto di primi piani di una coppia impegnata in un atletico rapporto sessuale. Pensato per fare la stessa fine di Ghosts At No.9 e Couch, non era né meglio né peggio dei film che vengono proiettati oggi alle mostre di laurea in una qualsiasi università di Belle Arti. Con la differenza che Burroughs, Warhol e Ono l’hanno fatto con decenni di anticipo.
Prima che le si rompessero le acque, Yoko scrisse delle nuove poesie e “istruzioni”. Alcune seguivano il filo logico delle prime (soprattutto “Nail Piece”, che sarebbe stato ripreso pochi anni dopo) e, per quelli in grado di capirlo, c’era più di un elemento retrospettivo nel riemergere di opere come “Lighting Piece”. Tuttavia abbracciò una qualità gentile, quasi pastorale, in cose come “Water Piece”, che richiedeva di portare un secchio allo stagno e raccogliere il riflesso della luna.
Alcuni comparvero nelle mostre estive insieme alle performance di Tokyo nei centri Naiqua e Sogetsu, al tempio Nazenji di Kyoto e alla sala concerti Yamaichi. Ma troppo presto tutti gli spettatori si sarebbero concentrati su Doris Day, il cui nuovo film hollywoodiano con Rock Hudson stava per uscire nelle sale. Una prima stampa di cinquecento copie di Grapefruit, una raccolta di “frammenti di istruzioni” fatta dalla stessa Yoko in forma di libro, era l’unico oggetto destinato alla vendita su larga scala (se così vogliamo definirlo).
Il fatto che si arrivò vicini al punto di pareggio fu gratificante dal punto di vista dei recenti sviluppi familiari. La prima settimana del 1962 era arrivata la sentenza definitiva di divorzio e Yoko aveva sposato Tony Cox senza preoccuparsi di avvisare i genitori. Quando ne venne a conoscenza, Eisuke, sconvolto, ordinò al Signore e alla Signora Cox di sgombrare il suo appartamento di Tokyo. Cosa che fu più deplorevole che disastrosa poiché presto i due trovarono un alloggio conveniente nel cosiddetto “Villaggio degli Stranieri” a Shibuya, una zona periferica meta di studenti d’oltreoceano.
Tony sbarcava il lunario insegnando l’inglese agli uomini d’affari del luogo e lo stesso fece Yoko finché le fu possibile, prima dell’arrivo della loro bambina, Kyoko Chan, l’8 agosto 1963.


[1]Il desiderio di essere curati è il primo passo verso la salute.
[2] Andy Warhol, H. Geldzahler, Art international, Vol. VIII, No.2 (1964)
[3] Record Collector, giugno 1992

lunedì 7 febbraio 2011

Capitolo 4 - La divorziata (prima parte)


“Ero sempre in comunicazione con l’elemento più puro in ogni persona”

Parlando di Elvis Presley, la pop star degli anni’50 Johnny Ray, giunse alla conclusione che “Non c’è niente di nuovo, solo un nuovo modo di fare le stesse cose”1. Lo stesso si può dire dei tentativi artistici di Yoko Ono alla fine degli anni ’50, sarebbero stati tutti possibili in ogni momento dalla Grande Guerra in poi, da come sapevano di Dada, Surrealismo e simili. Non attiravano nemmeno troppo l’attenzione, a parte qualche attimo di passeggero sgomento per l’uomo qualunque che notava un pacco di cornflakes ai piedi della statua di Gorge M. Cohen a Times Square o si ritrovava una citazione della Società della Terra Piatta tra le pagine del suo New York Times. Prese singolarmente, quindi, le opere di Yoko erano deboli ma, tutte insieme, stavano iniziando a causare un certo mormorio ed il suo nome stava acquisendo credito dovunque l’Arte fosse considerata un antidoto al piacere, basandosi sul principio secondo cui maggiore era lo sforzo per apprezzare qualcosa, più “artistico” quel qualcosa sarebbe stato.
La A’G Gallery di George Maciunas a Canal Street, una delle vetrine principali del Greenwich Village, ospitò i lavori di Yoko in una mostra di giovani talenti emergenti. Tra i suoi contributi c’erano “Painting To See The Skies”, “Painting To See The Room” (che consisteva in un foro) ed il vagamente delatorio “George Poem No.18”, dei versi in giapponese che vennero poi dipinti di nero per essere del tutto illeggibili, come già aveva fatto Frank Stella con un’intera serie di dipinti completamente neri.
Com’era prevedibile, ci fu soltanto uno sparuto pubblico di nicchia all’A’G Gallery, curiosamente soprattutto la sera dell’inaugurazione, quando lo scopo della maggior parte dei visitatori era quello di dimostrare la gioia semplice dell’essere anarchici, in favore dell’amore libero e di “vivere all’ombra della bomba” o, più semplicemente, apparire per com’erano in realtà.
Tuttavia, nessun giornale importante si preoccupò di mandare qualcuno.
Nella fredda luce del mattino seguente, fu spaventosamente chiaro che l’arte di Yoko non avrebbe pagato l’affitto e, nel 1960, Toshi si ritrovò a strimpellare il piano tra il chiacchiericcio dei clienti al cocktail bar del Paradox (il ristorante più “in” del Greenwich Village), dove  a Yoko, che ci lavorava come cameriera, fu concesso di appendere alcuni dei suoi quadri. Fu anche costretta ad insegnare calligrafia, musica folk e fare la segretaria part-time per l’Associazione Giapponese, il che implicava un lungo viaggio in treno attraverso la città. Ma, grazie alla sua istruzione cosmopolita, fu mandata nelle scuole della città come rappresentante culturale, “quindi andavo là e mostravo com’era la calligrafia e la cerimonia del tè, eccetera. Pagavano abbastanza bene. Feci quello che fa la maggior parte della gente in quelle circostanze”2.
Tuttavia il lavoro all’Associazione Giapponese, che promuoveva lo stile di vita nipponico e le sue caratteristiche a gente rispettabile di mezz’età, non era la strada giusta per sentirsi realizzata, in gran parte perché Yoko rifiutava il suo dono per l’insegnamento. Quando questi lavoretti non bastavano, vendeva mobili o effetti personali per comprare da mangiare, esattamente come aveva fatto sua madre dopo la fuga dai bombardamenti di Tokyo. Nonostante le richieste insistenti di Toshi, infatti, non si sarebbe mai abbassata a chiedere niente ad Isoko e Eisuke.
Con la spada di Damocle dell’instabilità finanziaria, il matrimonio navigava in acque sempre più cattive. I sinceri scambi di opinioni nel loft di Chambers Street portarono alla luce la cruda realtà: Yoko e Toshi stavano insieme perché nessuno dei due aveva motivi sufficienti per fare altrimenti. Tuttavia, quella che era un’unione priva di gioia sfociò presto in aperta ostilità e, con Yoko restia a ravvivare le sue braci languenti, Toshi lasciò l’appartamento, la città ed il paese per tentare un nuovo inizio in Giappone.
Poiché non c’era traccia di una qualche dissoluzione formale del matrimonio, i genitori di Yoko, preoccupati, e rivista la loro opinione su Toshi, speravano che lo strappo emotivo tra la figlia ed il genero non fosse troppo profondo per non essere ricucito. Per oliare gli ingranaggi della riconciliazione, Eisuke offrì a Yoko l’uso di un appartamento all’undicesimo piano di un palazzo di Tokyo. Il viaggio poteva sembrare, almeno in parte, legittimo, in vista del matrimonio del fratello Keisuke.
Un elemento focale nella sofferta decisione di Yoko se andare o restare stava nel fatto che il successo a New York poteva essere proprio dietro l’angolo. Il 24 novembre 1961 sarebbe stata in cartellone alla Carnegie Hall, anche se non nell’auditorium principale, ma nella sala adiacente che poteva accogliere circa 250 spettatori. Il rischio prenotazioni la obbligò nei mesi precedenti ad una preparazione non-stop per questo concerto decisivo. Il programma prometteva esibizioni descritte come “pezzi d’opera”, che includevano “A Piece For Straberries And Violin” (ovvero il gemito acuto e senza parole di Yoko) e “A Grapefruit In The World Of Park”, con gente che si trascinava su un palco flebilmente illuminato, tra cui un paio di uomini legati l’uno all’altro che cercavano di farsi strada tra bottiglie e lattine vuote e dei ballerini, i cui grugniti di sforzo nel trascinare avanti e indietro oggetti pesanti erano amplificati dai microfoni. Dietro le quinte fu amplificato anche un bagno per il sonoro.
Le poche righe sui giornali furono così antipatiche da sbagliare persino a scrivere il nome di Yoko, aggiungendo al danno la beffa.
Un periodo fuori dalla sua solita orbita apparve, quindi, a Yoko come una buona idea e raggiunse Toshi nel appartamento di Eisuke, in un edificio d’acciaio e cemento armato, elogiato per la sua apparenza austera da coloro che non dovevano viverci.
Completamente abbattuta, Yoko alzava lo sguardo dal fondo di un burrone psicologico. L’unica striscia di cielo blu che Yoko vide fu nell’estate del 1962, quando le sue poesie, i dipinti e “pezzi d’opera” seguirono il nome di John Cage in cartellone, per quello che, più che un vero e proprio tour, era una serie di serate in Giappone. Inoltre, le telecamere della televisione sarebbero state pronte ad accoglierli al loro arrivo a Tokyo.
Di nuovo, com’era accaduto a New York, negli articoli incentrati su Cage, gli sparuti riferimenti a Yoko furono il più negativi possibile. I critici si lamentavano di lei considerandola una plagiatrice che faceva affidamento su dei semplici giochetti. Nell’insieme, comunque, nessuno pareva troppo interessato a lei.
Questo fece dormire a Yoko sonni difficili, avvolta nel suo pigiama stropicciato col quale rimaneva a letto per giorni, con gli occhi aperti e le tempie pulsanti. Un semplice gesto o parola poteva causare un nuovo parossismo di singhiozzi disperati. Sopportando le sue auto-flagellazioni e lo stillicidio di un nervosismo in continuo aumento, Toshi la lasciava inveire e protestare in una gamma di tonalità che andavano dalla trepidazione mormorata allo stridore hitleriano, senza mai rimproverarla. Aveva imparato a tenere per sé i propri sentimenti, poiché nell’appartamento c’era posto per un solo artista tormentato. Solo a Yoko era concesso di dare in escandescenze, avere nevrosi e comportarsi in modo assurdo. In un periodo in cui la depressione clinica non era ancora considerata una malattia emotiva, qualcuno, meno comprensivo, le consigliò di smetterla e tornare in sé. Le dissero di finirla di giocare al genio incompreso e sconvolto e mettersi a lavorare sul serio per cambiare le cose.
Ogni tanto cercava di combattere le giornate nere buttandosi a corpo morto sul lavoro, ma il telefono squillava, la colazione si sarebbe freddata o poteva esserci qualcosa di interessante alla tv via cavo. Forse ci avrebbe riprovato l’indomani.
Le settimane passavano inesorabilmente senza l’ombra di un’idea e cresceva il tacito sospetto che Yoko avesse affogato il suo talento nella tristezza. L’urgenza della creazione forse sarebbe stata maggiore con la prospettiva della fretta commerciale. Ma senza nessuno che la pagasse per sopravvivere mentre soffriva per la propria arte, l’iperattività si ridusse ad un languore rinviato e, sommersa dal tedio, la mente di Yoko vagava ovunque tranne che verso il lavoro non pagato che aveva tra le mani. Quindi tornò temporaneamente alla mia personale definizione di intellettuale: qualcuno che legge molto e pensa molto ma che non fa niente.
Toshi temeva un suo gesto insano, mentre Yoko passava dalla deprimente letargia diurna alla contemplazione notturna del suicidio. Le paure erano più che giustificate poiché, durante un attacco particolarmente violento di autocommiserazione, Yoko tentò di gettarsi dalla finestra. Lo stesso demone che aveva intimato a Van Gogh di tagliarsi l’orecchio stava obbligando Yoko a tentare una fine auto-gestita e, sempre come Van Gogh, nel suo destino c’era una clinica psichiatrica.
In questo limbo che durò fino all’autunno, Yoko si confrontò e fece i conti con la sua agitazione interiore, con l’aiuto di un campanello che poteva suonare ogni volta che i fantasmi di vortici immaginari minacciavano di inghiottirla. A volte le infermiere le somministravano una dose di sedativi maggiore del necessario. Infatti, era piuttosto intorpidita quando un allora sconosciuto giovane di buone speranze si fece strada nel corridoio.


1 Cry: The Johnny Ray Story, J. Whiteside (Barricade, 1994)
2 A Paul Trynka.

giovedì 3 febbraio 2011

Capitolo 3 - La sposa (seconda parte)


La si vedeva spesso ai party demi-monde, che di solito avvenivano quando i genitori del padrone di casa erano fuori città, sull’altra sponda di Manhattan, dove i salotti venivano trasformati in covi d’immoralità con luci soffuse fatte in casa mettendo i foulard sulle lampade da tavolo, con le stampe di Man Ray appese al muro. La colonna sonora era formata da pezzi scat, tamburellare di bonghi, un sassofono suonato senza senso o le note, diffuse dal giradischi, dei fragili “settantotto” e dei 45 giri plastificati che li stavano rimpiazzando. Gli ascoltatori, seduti con le gambe accavallate, avevano le palpebre chiuse in un’estasi di piacere, per qualcuno si trattava di un preludio ai preliminari e agli attacchi di “sindrome del deserto”[1].
È in questo contesto eccentrico che gli occhi di un certo Toshi Ichiyanagi scorsero per la prima volta il maldestro fascino di Yoko, seduta con un gruppetto di compagne del Sarah Lawrence. Indagando con nonchalance tra gli altri partecipanti alla festa (tutti dotati di basco, barbetta di una settimana, e pullover cencioso) scoprì il suo nome e ottenne qualche breve informazione sul suo passato. Da parte sua anche Yoko sembrava interessarsi a Yoshi, osservandolo con la coda dell’occhio.
Il contatto era avvenuto e Yoko seppe che Toshi studiava alla Julliard School of Music di New York, dove faceva il trapezista senza rete sulla fune dell’avant-garde. Prima che la serata finisse si dettero un appuntamento, a cui ne seguì un secondo e un terzo, ecc… finché Toshi e Yoko non oltrepassarono quel sottile limite tra amicizia incerta e amore dichiarato.
Però, questo nuovo fidanzato (praticamente il primo, per Yoko) non colpì particolarmente i genitori di lei, soprattutto a causa dell’evidente educazione proletaria. Le obiezioni di Eisuke e Isoko al matrimonio dei due portarono Yoko ad abbandonare sia il college che la famiglia per un periodo di romantico squallore (ma pur sempre squallore) prima che i genitori cedessero. Anche se non vi presero parte, i signori Ono pagarono il ricevimento in una grande sala per cerimonie in città e convinsero il Console Generale giapponese a fare un discorso dopo la cena.
Furono anche costretti a prendere atto del fatto che Yoko non sarebbe tornata al Sarah Lawrence. Si trasferì invece in un loft al quinto piano, scarsamente arredato e senza riscaldamento, di Chamber Street, al centro del Lower West Side di Manhattan, nel bel mezzo di un tremendo cambio di stagione dal calore dell’oro al gelo del marmo. La luce del cielo era ghiacciata e la pelle d’oca spopolava in quell’inverno triste. In un tripudio di venti da est, la neve continuò a cadere fino ai primi di aprile e Yoko, tremando in un inquieto dormiveglia, non riusciva a dormire al fianco di Toshi, che russava a bocca aperta.
Una serata casalinga di crude verità poteva concludersi con un’improvvisa riconciliazione tra le lacrime, ma Toshi e Yoko non erano più una coppietta innamorata che se ne andava in giro per New York mano nella mano. Tutte le tenerezze erano scomparse poco a poco. Entrambi avevano letto Nietzsche e, alla fine, Yoko era arrivata ad identificarsi col credo personale del filosofo tedesco dell’irrazionalità: la vita familiare è incompatibile con una vita di costante creatività.
La passione era dunque finita? In poche ore Yoko sarebbe tornata a Scarsdale, a spazzolare il pranzo preparatole dalla cuoca, poi si sarebbe persa in un film o davanti alla tv, prima di immergersi nell’acqua calda e profumata della vasca verde smeraldo, col riscaldamento dall’alto ed infine si sarebbe addormentata di nuovo nella sua cameretta. La prospettiva di tutti i “te l’avevo detto”, della delusione di quelle facce smunte per il suo abbandono del college e degli interrogatori su cosa avesse fatto esattamente fino a quel momento, non era più così terribile.
Ma Yoko non si abbatteva. Anche se il suo affetto per Toshi non era del tutto esaurito, lei, che probabilmente arrivò vergine alla prima notte di nozze, si era concessa delle relazioni con altri uomini dopo aver messo il marito di fronte al fatto che il loro matrimonio sarebbe diventato una relazione “aperta”, in cui ogni coniuge avrebbe tollerato le infedeltà fisiche dell’altro. Comunque, anni-luce dalla comparsa nelle farmacie americane del contraccettivo orale Conovoid (“la pillola”), i rapporti sessuali extra-matrimoniali erano un rischio simile a quello che si sarebbe corso quando l’AIDS ed altre malattie avrebbero messo un freno all’avanzata del nuovo millennio. I preservativi si rompevano e il “salto della quaglia” non era certo una garanzia. Ci si arrangiava alla meno peggio tenendo un bambino indesiderato, dandolo in adozione, seguendo pessimi consigli che prevedevano l’uso di gin e una tinozza di acqua bollente o, come si apprestava a fare Yoko, praticando un aborto.
Sollazzandosi con Toshi o qualcun altro, la faccenda aveva preso una piega seria e depravata e la prudenza era stata messa da parte per godere di pochi, eccitanti attimi di fantastici orgasmi extra-sensoriali. Un condom rotto la gettò nel panico. Allarmata dal lungo ritardo, Yoko annaspava cercando ragioni per non afliggersi. Le nausee al mattino potevano essere date dall’ansia, e anche quei centimetri in più sul girovita non erano niente di grave, ma i polsi, le caviglie e le ascelle avevano un aspetto davvero buffo.
Con le stesse domande che le ronzavano continuamente in testa, Yoko aveva costruito un processo contro sé stessa, arrivando alla conclusione che le sue paure erano infondate. Ma col lento scorrere dei giorni le “sue cose” non tornavano e cominciava a vedere carrozzine e pancioni ovunque: per strada, nei parchi, in tv. Non poteva più fare finta di niente.
Quello fu il primo aborto per Yoko, ma non l’ultimo, mentre il suo matrimonio con Toshi continuava a naufragare. Anche se ad unirli restava la passione per le stesse cose: allestivano le stesse mostre, curiosavano tra gli scaffali delle stesse librerie, sghignazzavano all’unisono per le battute di un film d’essay  e mantenevano lo stesso contegno nell’assistere agli stessi concerti dei compositori classici moderni. Varese, Penderecki e Stockhausen erano i nomi più illustri, ma che dire di Illhan, Mimaroglu, Earle Browne, Adolf Weiss, Jaques deMenace ed altri? Erano illustri sconosciuti allora come lo sono ora?
 Allora il pianista John Cage, ideatore della rischiosa teoria del “pianoforte preparato” (da un’idea di Henry Cowell), era in ascesa con “4’33”, sua famosa composizione “silenziosa”. Come il più anziano Weburn, era stato anche lui allievo di Shoenberg, che asseriva: “per scrivere musica, si deve avere il senso dell’armonia”. Ma a questo riguardo Cage confessò: “Non ho alcun senso dell’armonia”. Schoenberg dichiarò poi: “Mi troverò sempre di fronte ad un ostacolo che sarà come un muro che non posso oltrepassare” e Cage ribatté: “in questo caso, dedicherò la mia vita a sbattere la testa contro quel muro”[2].
Più avanti la tecnologia avrebbe raggiunto i suoni che Cage sentiva nella sua testa e lui dovette correre ai ripari nello Studio di Fonologia di Milano per costruire un collage di registrazioni (Fontana Mix) che divenne un classico nel suo genere. In ogni caso, Cage trascorreva sempre molto tempo a New York, dove i signori Ichiyanagi sembravano due bambini nella grotta di Babbo Natale mentre assistevano silenziosamente ai suoi eleganti ed avvincenti seminari di musica sperimentale alla New School for Social Research nel Greenwich Village, pieni di neologismi tecnici quali: onda quadrata, dissolvenza incrociata, rumore bianco, EQ, envelope, tape-loop, microtono … mentre, paradossalmente, Cage tentava di ridurre la musica al suo stato primordiale.
Tra i poeti, i fotografi e gli altri “animali culturali” presenti, ricordiamo: Allan Kaprow, l’artista a cui viene attribuita l’invenzione degli “happening”; Richard Maxfield, considerato da Cage come una sorta di protetto; Angus MacLise, futuro membro fondatore e percussionista dei Velvet Underground; il pittore Frank Stella; l’architetto e gallerista George Maciunas e LaMonte Young, un tempo jazzista, ma oramai principale esponente di uno stile noto come “minimalismo”, spesso presentato in contemporanea con altri eventi, come i light-show allestiti dalla moglie, Marian Zazeela.
Gli scambi di idee, durante e dopo il corso, resero la presenza di Yoko un elemento naturale in queste attività come quella dei sassi nei fiumi, portandola ad esplorare anche la sua stessa creatività, già evidente nei saggi del Sarah Lawrence. Con solitari paragrafi di prosa avant-garde, ad esempio,  invitava il pubblico, come se stesse dando le istruzioni per una caccia al tesoro, a stendere una tela pulita sul pavimento ed aspettare che i passanti ci camminassero sopra. Oppure ci si poteva ricoprire di piselli secchi per poi toglierseli di dosso uno alla volta, mentre il “Kitchen Piece” ordinava di gettare gli avanzi di cibo su una tela appesa al muro. Il più sconvolgente consisteva nel piantare un chiodo al centro di un pannello di vetro ed inviarne ogni frammento ad un indirizzo a caso.
Nell’enorme monolocale che era la casa di Yoko e Toshi, simili giochetti, oltre a poesie di libere associazioni mentali, giochi di parole, soliloqui imbarazzanti ed ulteriori conversazioni condotte per il puro piacere di parlare, portarono a sei mesi di “happening”, pubblicizzati perlopiù dal passaparola e con un discreto successo di pubblico. L’evento più importante fu la prima mondiale di una creazione di LaMonte Young, in cui due violoncellisti eseguivano con l’archetto le stesse due note all’infinito, ma altrettanto memorabile fu il lancio di piselli di Yoko verso il pubblico, con lo scuotersi dei lunghi capelli come impercettibile accompagnamento musicale.
I meno esperti non riuscivano a non ridere di ciò che in sostanza era il concretizzarsi della teoria di Yoko (ispirata dal Dadaismo) secondo cui: “il talento non serve per essere artisti”.


[1] Eufemismo dei primi anni ’70 usato per indicare i palpeggiamenti (sindrome del deserto = mani sotto i vestiti)
[2] The Roaring Silence: John Cage, D. Revill (Bloomsbury, 1992)