giovedì 10 febbraio 2011

Capitolo 4 - La divorziata (seconda parte)


Si trattava di Tony Cox, un newyorkese occhialuto di ventitrè anni e dalla lingua lunga che, come studente d’arte, aveva suonato il sax in uno dei complessi jazz di Lamonte Young. Attraverso Young e i suoi soci, Cox sapeva tutto di Yoko ed una delle ragioni per cui era volato in Giappone era poterle parlare, con l’idea di scrivere il primo articolo tutto dedicato al suo avanguardismo.
Stupita dalla buona volontà di questo ragazzo (che parlava fluentemente il giapponese ed era abbastanza preso dal fascino della donna più anziana da continuare a farle visita), Yoko gli spiegò che non si sarebbe più dedicata a progetti a lungo termine. Come avrebbe potuto? Infatti, anche se non era una studiosa di latino, seguiva la massima di Seneca secondo cui “pars sanitatis velle sanari fruit”1. Tony pensava anche che sarebbe stato meglio ridurre la sua assunzione di farmaci e fu in gran parte grazie alla sua insistenza con i medici che a Yoko fu concesso di rientrare nel mondo esterno prima del previsto.
Tony divenne un ospite fisso a cena dagli Ichyanagi che ai suoi occhi erano ormai due amici che un tempo erano stati amanti. Soprattutto Yoko era piuttosto sincera su quel matrimonio tenuto insieme soltanto dalle pressioni dei genitori. Ci furono lunghi e pericolosi attimi tra Cox e lei quando suo marito si allontanava dalla stanza, ma Toshi provò più stupore che rabbia quando Tony prese il suo posto nel letto di Yoko. Per un po’ i tre divisero l’appartamento come in un menage à trois, ma una discussione sull’organizzazione finanziaria portò Toshi a trovarsi un’altra sistemazione.
Quando Yoko e questo Cox comparvero mano nella mano in pubblico, Keisuke e Setsuko riferirono quest’ultima follia ai genitori che, castigando e disapprovando, dissero a Yoko di fare subito la pace con Toshi, anche se la sentenza provvisoria di divorzio era già stata emessa. Le cose si complicarono ulteriormente quando Yoko rimase incinta di Tony e non fu affatto tormentata da risentimento e paura. Stavolta voleva tenere il bambino e prendersene cura.
Una possibile opzione era quella che il concepimento fosse avvenuto durante un viaggio a Londra, una città dove i due sarebbero tornati spesso nei quattro anni a venire. Nel 1962 la comunità artistica britannica era ammorbata dai suoi “Angry Young Man” (Edward Middleditch, John Bratby e Derrick Greaves, tra gli altri) le cui pennellate da tinello di tuguri domestici e sordidi scenari cittadini non erano esattamente ciò che avreste appeso sopra il caminetto. Invece la novità scottante erano gli incerti esperimenti della Pop Art, che qualcuno pronosticò come nuova  moda, ma che l’establishment artistico disprezzava.
Cogliendo un pizzico del radicalismo culturale che sarebbe esploso nei “Favolosi anni ’60”, tra i suoi pionieri ricordiamo: Peter Blake, Richard Hamilton e Eduardo Paolozzi, originario di Edimburgo. Lo scopo era quello di riportare nella pittura l’ironia e l’attualità, attraverso il paradosso del fascino autentico della chiassosa cultura-spazzatura e del manieristico gozzovigliare di grandi cartelloni pubblicitari, riviste come Tit-bits, True Confessions ed Everybody’s Weekly, evasioni di terrore cieco per “Cose” che vengono dallo spazio ed altri artefatti del secolo della Coca Cola, solitamente liquidati come sciocchi, volgari e falsi nei loro giallo-mostarda e rosso-pomodoro.
Per le loro ricerche gli artisti Pop da entrambi i lati dell’Atlantico ascoltavano avidamente la Top Twenty del cambio di decennio, intasata com’era di singoli da un passaggio e via, tormentoni dance e, arrivata proprio in quel momento, la futilità insipida e tutta americana dei bei ragazzi della porta accanto come Bobby Vinton, Bobby Vee e Bobby Rydell, tutti lacca per capelli e innocenti sorrisi a mezza bocca.
Per il momento questo era tutto l’interesse di Yoko verso la musica pop, anche se non è molto. In un certo senso, però, era stata più che consapevole della Pop Art in genere quando viveva a Chambers Street e, grazie al “padrino” dell’ala americana, i barattoli di minestra, le scatole di detersivo Brillo, schermi di seta di icone popolari e la filosofia delle strisce di fumetti vennero compendiati in un intervista. Andy Warhol era solo un semplice veicolo con scarse informazioni biografiche, con un bagaglio di esperienza e motivazioni, ma era proprio questo il punto. “Non c’è niente da spiegare o da capire”[2], sarebbe diventata una delle affermazioni (forse neanche tanto)  superficiali più citate di Wharol.
“Andy Warhol usava tutti simboli familiari nei suoi lavori” spiega Yoko “ed Elvis era allo stesso livello della minestra Campbell o di Liz Taylor. Solo perché li ha usati come simboli, questo non significa che gli interessassero”[3]. E non interessavano nemmeno a Yoko che, anche se era nella posizione per farlo, aveva deciso di non farsi risucchiare dal vortice della Factory, residenza privata e centro d’arte di Warhol a due isolati di distanza, e di altri luoghi sinonimi del suo ottimo impatto sui primi anni ’60.
Warhol avrebbe prodotto film interessanti ma noiosi come Couch e Chelsea Girls che erano, a mio parere, una Pop Art parallela all’opera di William Burroughs, scrittore principale della Beat Generation, che non solo tentò ma piuttosto si buttò a capofitto nei film sgranati (come Ghosts At No.9 e Towers Open Fire) vagamente divertenti, ma più che altro dei incomprensibili.
Negli ultimi mesi di gravidanza, Yoko mise mano ad entrambi i campi quando le fu commissionato di comporre la colonna sonora per un altrimenti dimenticato film di sei minuti, Love, fatto di primi piani di una coppia impegnata in un atletico rapporto sessuale. Pensato per fare la stessa fine di Ghosts At No.9 e Couch, non era né meglio né peggio dei film che vengono proiettati oggi alle mostre di laurea in una qualsiasi università di Belle Arti. Con la differenza che Burroughs, Warhol e Ono l’hanno fatto con decenni di anticipo.
Prima che le si rompessero le acque, Yoko scrisse delle nuove poesie e “istruzioni”. Alcune seguivano il filo logico delle prime (soprattutto “Nail Piece”, che sarebbe stato ripreso pochi anni dopo) e, per quelli in grado di capirlo, c’era più di un elemento retrospettivo nel riemergere di opere come “Lighting Piece”. Tuttavia abbracciò una qualità gentile, quasi pastorale, in cose come “Water Piece”, che richiedeva di portare un secchio allo stagno e raccogliere il riflesso della luna.
Alcuni comparvero nelle mostre estive insieme alle performance di Tokyo nei centri Naiqua e Sogetsu, al tempio Nazenji di Kyoto e alla sala concerti Yamaichi. Ma troppo presto tutti gli spettatori si sarebbero concentrati su Doris Day, il cui nuovo film hollywoodiano con Rock Hudson stava per uscire nelle sale. Una prima stampa di cinquecento copie di Grapefruit, una raccolta di “frammenti di istruzioni” fatta dalla stessa Yoko in forma di libro, era l’unico oggetto destinato alla vendita su larga scala (se così vogliamo definirlo).
Il fatto che si arrivò vicini al punto di pareggio fu gratificante dal punto di vista dei recenti sviluppi familiari. La prima settimana del 1962 era arrivata la sentenza definitiva di divorzio e Yoko aveva sposato Tony Cox senza preoccuparsi di avvisare i genitori. Quando ne venne a conoscenza, Eisuke, sconvolto, ordinò al Signore e alla Signora Cox di sgombrare il suo appartamento di Tokyo. Cosa che fu più deplorevole che disastrosa poiché presto i due trovarono un alloggio conveniente nel cosiddetto “Villaggio degli Stranieri” a Shibuya, una zona periferica meta di studenti d’oltreoceano.
Tony sbarcava il lunario insegnando l’inglese agli uomini d’affari del luogo e lo stesso fece Yoko finché le fu possibile, prima dell’arrivo della loro bambina, Kyoko Chan, l’8 agosto 1963.


[1]Il desiderio di essere curati è il primo passo verso la salute.
[2] Andy Warhol, H. Geldzahler, Art international, Vol. VIII, No.2 (1964)
[3] Record Collector, giugno 1992

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