lunedì 21 febbraio 2011

Capitolo 6 - In visita (prima parte)

“All’epoca ero a New York, l’ombelico del mondo dell’arte, e pensai 'perché mai dovrei andare a Londra?'”

Come avvenne per Madonna ed il suo primo marito Sean Penn, Yoko era lo specchietto per le allodole e Tony faceva parte del pacchetto. Fu così che quando la nave partita da New York attraversò lentamente il Solent verso Southampton i due, con Kyoko, anche se distrutti dal viaggio, percepirono l’inizio di un risveglio e un guizzo di aspettativa.
Prima che quella giornata d’estate inoltrata finisse, la famiglia stava già disfacendo i bagagli a Londra, in casa di Mario Amaya, editore di Arts And Artists, il periodico sponsor del simposio. Dovettero dormire sui divani, sul pavimento e in camere vuote, finché non fu disponibile un appartamento di nove stanze ad Hanover Gate Mansions, davanti a Regent’s Park[1]. La decisione di restare in Inghilterra avvenne in maniera naturale, in seguito all’ouverture di gallerie in cui Yoko esponeva ed ad un continuo flusso di inviti da parte di persone affamate di conoscere i suoi happening Fluxus. “Mi si presentò questa incredibile scena artistica” racconta stupita Yoko “l’intera situazione era, dal punto di vista di un’americana, molto underground, molto intima, di altissima qualità. C’era una strana luce nell’aria di Londra ed era fantastica. Una volta respirata quell’aria ho pensato: ok, ora sono qua. E non mi sono più voltata indietro”[2].
Tra i vari piaceri della vita londinese c’erano inoltre: un ritmo di vita più tranquillo, i soldi che sembravano quelli del Monopoli, le autostrade infinite, solo due canali tv, pacchetti di sigarette da dieci, Coca Cola senza ghiaccio, vigili urbani che ti chiamavano “tesoro” e pub che, a differenza del Louie’s Bar nel Village, erano qualcosa di più di un semplice posto dove ubriacarsi.
Per qualche settimana Kyoko fu costretta a vivere lontana dai genitori, poiché non c’era abbastanza spazio nella casa del pittore Adrian Morris e di sua moglie, che aveva incontrato Yoko ad un party di qualcuno nel giro di Arts And Artists. Quando Morris aveva iniziato la conversazione chiedendole che tipo di artista fosse, la risposta di Yoko “Mi occupo della musica della mente”, la sua fama di non essere del tutto arrogante ed il generale clima di giovialità indussero Morris ad invitare i Cox per un fine settimana a casa sua, due giorni che diventarono poi tre mesi.
“Mi sono divertito con loro” ricorda con un sorriso Adrian “ed ero molto preso da quello che stavano facendo. Una volta tornai a casa e, diretto in cucina attraverso il giardino sul retro, la vidi ascoltare un orologio con lo stetoscopio. All’epoca aveva allestito una mostra intitolata “Time Piece”. I reporter le scattavano foto e mi resi conto di quanto fosse unica. Un’altra volta, in cucina, scherzando, le ho dato un colpetto sulla testa e l’ho chiamata “piccola Yoko”. Mi ricordo la sua risposta come se fosse oggi: “Tu mi chiami piccola, ma io ho un universo nella mia testa”[3].
Morris ricorda con piacere anche la cucina di Yoko, soprattutto il suo sgombro stufato su un letto di fagioli. Durante la loro permanenza, Yoko e Tony, unirono l’utile al dilettevole visitando i luoghi di maggiore interesse: la cattedrale di St. Paul, il Big Ben, il ponte di Westminster ed i nostri fantastici poliziotti, che non avevano mai avuto occasione di osservare in precedenza. Un pomeriggio di quell’autunno caldo e assolato le due coppie andarono con Kyoko allo zoo e la gita è testimoniata da una foto di Yoko davanti ad un gruppo di babbuini.
Naturalmente i Morris furono i benvenuti nell’appartamento liberty di Hanover Gate Mansions dopo che questo fu arredato in modo minimalista con le pareti e i soffitti dipinti di bianco. L’idea era che se la mente non fosse stata assalita dai colori, si sarebbe potuto essere più creativi. Yoko e Tony portavano avanti il loro progetto di celluloide sui sederi, che ora aveva un titolo provvisorio: Four Square. Tra le sue nuove star c’era il giornalista del Times Hunter Davies.
L’interesse della stampa fu ulteriormente attratto dal debutto sulla scena inglese di Yoko presso il Roundhouse auditorium (più simile ad un fienile) di Chalk Farm, dove presentò, oltre ai già affermati “Bag Piece” e “Cut Piece”, nuovi concetti come “Line” (disegna una linea e poi cancellala), “Wall Piece” (volontari dal pubblico si univano a Yoko nello sbattere la testa su un muro) ed il gran finale, una specie di gioco di parole per associazione mentale in cui Yoko urlava qualcosa al pubblico pagante che rispondeva blaterando indistintamente qualsiasi cosa passasse nelle loro menti, per cinque minuti.
Era invece gratuito l’happening di Trafalgar Square in cui, ricorda il disegnatore di copertine Gene Mahon, “Yoko voleva stare in un sacco nero e chiamò me e un altro di nome Ed Klein a farle da guardie del corpo”[4]. Un’altra trovata del genere, svoltasi sempre a Trafalgar Square, fu quella di avvolgere le statue dei leoni con della carta marrone, attirando più o meno la stessa attenzione dell’ex impiegato statale Stanley Green, che passeggiava ogni giorno avanti e indietro per Oxford Street, con un cartello che dichiarava ai pochi disposti a leggerlo il suo credo in: “Meno libidine da meno proteine”.
Però, mentre Green non era esattamente l’alba dell’era dell’Acquario, Yoko era “cool”. Gli annunci dei suoi eventi riempivano regolarmente la quarta pagina del quindicinale International Times (IT), l’organo più underground di Londra (e, di conseguenza, di tutta l’Inghilterra), che nell’autunno del 1967 avrebbe fatto scalpore con la foto di Frank Zappa seduto sul water. Prima della fine dell’anno IT arrivava con le sue notizie su ciò che accadeva nella Swinging London fino agli scolaretti della provinciale e nascosta Dullsville. Questo disturbava il crooner Frankie Vaughan fino al punto da lanciare una campagna contro la diffusione della sottocultura hippy. “Gli hippy sono i parassiti della società”[5], dichiarò ad un congresso gettando un fiore lanciatogli da uno di quei parassiti fra il pubblico.
Col Vietnam, le droghe, Che Guevara, la liberazione sessuale, i cartoni violenti e le proteste studentesche europee come comuni denominatori, i numeri di IT si occupavano più del rock (che solo le menti elette potevano apprezzare) che del volgare pop. In una tale ricchezza di affermazioni eccessive, non mancavano certo le dichiarazioni incoscienti, come ad esempio definire Arthur Lee dei Love “l’unico musicista moderno senza peli sulla lingua” e “Charlie” Manson “un innocuo eccentrico”. Un dolce fiore uscito dalla macchina da scrivere del dj John Peel (allora una delle persone migliori che fossero mai esistite) per la sua rubrica “Perfumed Garden” fu: “Ci sono passerotti, fontane e rose nella mia testa. A volte non ho tempo per amarvi. Questo è profondamente sbagliato”[6].
Il giornale prese il volo con un ricevimento in una fredda serata di ottobre del 1966 al Roundhouse, dove proto-hippy passeggiavano tra celebrità del calibro di Michelangelo “Blow Up” Antonioni (il regista più artistico di metà anni ’60), la pop-star Marianne Faithful (con un incrocio tra il vestito di una suora e una minigonna ascellare) ed altri potenti amici di Barry Miles, occhialuto e magrissimo direttore di IT.
Altre mille persone che parteciparono alla festa ricorderanno le zollette di zucchero offerte che potevano contenere o meno LSD, l’enorme vasca da bagno piena di gelatina, i light-show ectoplasmatici che facevano parte dello spettacolo pieno di feedback dei The Pink Floyd e dei The Soft Machine (in un’epoca in cui l’articolo determinativo non era stato ancora rimosso dai loro nomi). Questi ultimi furono interrotti a metà show da quello che si rivelò un semplice spettacolo in co-partecipazione col pubblico di Yoko Ono. Tutte le luci si spensero, a parte le spie degli amplificatori dai quali uscì la sua voce che diceva: “Toccate la persona accanto a voi”. Poi tornò la luce e i The Soft Machine ripresero il loro spettacolo.
Barry Miles, che gradiva essere chiamato per cognome, fu deliziato sia dallo spettacolo che dal successivo andamento dei grafici di bilancio di IT.  La rivista era nata nello scantinato dell’Indica Gallery, accanto al negozio di oggettistica avant-garde dall’aspetto mistico di Ham Yard, appena fuori da Piccadilly Circus. Era stato aperto nel gennaio 1966 da Miles e John Dunbar (primo marito di Marianne Faithful) ed invitava artisti di talento, con o senza speranze, ad usare la zona destinata ai workshop della galleria fino al punto che Eric Burdon degli Animals, che viveva al piano di sopra, lo definì “l’ufficio di Yoko Ono”[7].



[1] Oggi l’intero edificio è diventato una moschea.
[2] A Paul Trynka.
[3] John Ono Lennon, R. Coleman (Sidgewick & Jackson, 1984)
[4] Days In The Life: Voices From The English Underground 1961-71, Jonathon Green (Heinemann, 1988)
[5] Playpower, R. Neville (Jonathan Cape, 1970)
[6] International Times, 17 maggio 1967.
[7] Don’t Let Me Be Misunderstood, E. Burdon e J. Marshall Craig (Thunder’s Mouth, 2001)

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