lunedì 7 febbraio 2011

Capitolo 4 - La divorziata (prima parte)


“Ero sempre in comunicazione con l’elemento più puro in ogni persona”

Parlando di Elvis Presley, la pop star degli anni’50 Johnny Ray, giunse alla conclusione che “Non c’è niente di nuovo, solo un nuovo modo di fare le stesse cose”1. Lo stesso si può dire dei tentativi artistici di Yoko Ono alla fine degli anni ’50, sarebbero stati tutti possibili in ogni momento dalla Grande Guerra in poi, da come sapevano di Dada, Surrealismo e simili. Non attiravano nemmeno troppo l’attenzione, a parte qualche attimo di passeggero sgomento per l’uomo qualunque che notava un pacco di cornflakes ai piedi della statua di Gorge M. Cohen a Times Square o si ritrovava una citazione della Società della Terra Piatta tra le pagine del suo New York Times. Prese singolarmente, quindi, le opere di Yoko erano deboli ma, tutte insieme, stavano iniziando a causare un certo mormorio ed il suo nome stava acquisendo credito dovunque l’Arte fosse considerata un antidoto al piacere, basandosi sul principio secondo cui maggiore era lo sforzo per apprezzare qualcosa, più “artistico” quel qualcosa sarebbe stato.
La A’G Gallery di George Maciunas a Canal Street, una delle vetrine principali del Greenwich Village, ospitò i lavori di Yoko in una mostra di giovani talenti emergenti. Tra i suoi contributi c’erano “Painting To See The Skies”, “Painting To See The Room” (che consisteva in un foro) ed il vagamente delatorio “George Poem No.18”, dei versi in giapponese che vennero poi dipinti di nero per essere del tutto illeggibili, come già aveva fatto Frank Stella con un’intera serie di dipinti completamente neri.
Com’era prevedibile, ci fu soltanto uno sparuto pubblico di nicchia all’A’G Gallery, curiosamente soprattutto la sera dell’inaugurazione, quando lo scopo della maggior parte dei visitatori era quello di dimostrare la gioia semplice dell’essere anarchici, in favore dell’amore libero e di “vivere all’ombra della bomba” o, più semplicemente, apparire per com’erano in realtà.
Tuttavia, nessun giornale importante si preoccupò di mandare qualcuno.
Nella fredda luce del mattino seguente, fu spaventosamente chiaro che l’arte di Yoko non avrebbe pagato l’affitto e, nel 1960, Toshi si ritrovò a strimpellare il piano tra il chiacchiericcio dei clienti al cocktail bar del Paradox (il ristorante più “in” del Greenwich Village), dove  a Yoko, che ci lavorava come cameriera, fu concesso di appendere alcuni dei suoi quadri. Fu anche costretta ad insegnare calligrafia, musica folk e fare la segretaria part-time per l’Associazione Giapponese, il che implicava un lungo viaggio in treno attraverso la città. Ma, grazie alla sua istruzione cosmopolita, fu mandata nelle scuole della città come rappresentante culturale, “quindi andavo là e mostravo com’era la calligrafia e la cerimonia del tè, eccetera. Pagavano abbastanza bene. Feci quello che fa la maggior parte della gente in quelle circostanze”2.
Tuttavia il lavoro all’Associazione Giapponese, che promuoveva lo stile di vita nipponico e le sue caratteristiche a gente rispettabile di mezz’età, non era la strada giusta per sentirsi realizzata, in gran parte perché Yoko rifiutava il suo dono per l’insegnamento. Quando questi lavoretti non bastavano, vendeva mobili o effetti personali per comprare da mangiare, esattamente come aveva fatto sua madre dopo la fuga dai bombardamenti di Tokyo. Nonostante le richieste insistenti di Toshi, infatti, non si sarebbe mai abbassata a chiedere niente ad Isoko e Eisuke.
Con la spada di Damocle dell’instabilità finanziaria, il matrimonio navigava in acque sempre più cattive. I sinceri scambi di opinioni nel loft di Chambers Street portarono alla luce la cruda realtà: Yoko e Toshi stavano insieme perché nessuno dei due aveva motivi sufficienti per fare altrimenti. Tuttavia, quella che era un’unione priva di gioia sfociò presto in aperta ostilità e, con Yoko restia a ravvivare le sue braci languenti, Toshi lasciò l’appartamento, la città ed il paese per tentare un nuovo inizio in Giappone.
Poiché non c’era traccia di una qualche dissoluzione formale del matrimonio, i genitori di Yoko, preoccupati, e rivista la loro opinione su Toshi, speravano che lo strappo emotivo tra la figlia ed il genero non fosse troppo profondo per non essere ricucito. Per oliare gli ingranaggi della riconciliazione, Eisuke offrì a Yoko l’uso di un appartamento all’undicesimo piano di un palazzo di Tokyo. Il viaggio poteva sembrare, almeno in parte, legittimo, in vista del matrimonio del fratello Keisuke.
Un elemento focale nella sofferta decisione di Yoko se andare o restare stava nel fatto che il successo a New York poteva essere proprio dietro l’angolo. Il 24 novembre 1961 sarebbe stata in cartellone alla Carnegie Hall, anche se non nell’auditorium principale, ma nella sala adiacente che poteva accogliere circa 250 spettatori. Il rischio prenotazioni la obbligò nei mesi precedenti ad una preparazione non-stop per questo concerto decisivo. Il programma prometteva esibizioni descritte come “pezzi d’opera”, che includevano “A Piece For Straberries And Violin” (ovvero il gemito acuto e senza parole di Yoko) e “A Grapefruit In The World Of Park”, con gente che si trascinava su un palco flebilmente illuminato, tra cui un paio di uomini legati l’uno all’altro che cercavano di farsi strada tra bottiglie e lattine vuote e dei ballerini, i cui grugniti di sforzo nel trascinare avanti e indietro oggetti pesanti erano amplificati dai microfoni. Dietro le quinte fu amplificato anche un bagno per il sonoro.
Le poche righe sui giornali furono così antipatiche da sbagliare persino a scrivere il nome di Yoko, aggiungendo al danno la beffa.
Un periodo fuori dalla sua solita orbita apparve, quindi, a Yoko come una buona idea e raggiunse Toshi nel appartamento di Eisuke, in un edificio d’acciaio e cemento armato, elogiato per la sua apparenza austera da coloro che non dovevano viverci.
Completamente abbattuta, Yoko alzava lo sguardo dal fondo di un burrone psicologico. L’unica striscia di cielo blu che Yoko vide fu nell’estate del 1962, quando le sue poesie, i dipinti e “pezzi d’opera” seguirono il nome di John Cage in cartellone, per quello che, più che un vero e proprio tour, era una serie di serate in Giappone. Inoltre, le telecamere della televisione sarebbero state pronte ad accoglierli al loro arrivo a Tokyo.
Di nuovo, com’era accaduto a New York, negli articoli incentrati su Cage, gli sparuti riferimenti a Yoko furono il più negativi possibile. I critici si lamentavano di lei considerandola una plagiatrice che faceva affidamento su dei semplici giochetti. Nell’insieme, comunque, nessuno pareva troppo interessato a lei.
Questo fece dormire a Yoko sonni difficili, avvolta nel suo pigiama stropicciato col quale rimaneva a letto per giorni, con gli occhi aperti e le tempie pulsanti. Un semplice gesto o parola poteva causare un nuovo parossismo di singhiozzi disperati. Sopportando le sue auto-flagellazioni e lo stillicidio di un nervosismo in continuo aumento, Toshi la lasciava inveire e protestare in una gamma di tonalità che andavano dalla trepidazione mormorata allo stridore hitleriano, senza mai rimproverarla. Aveva imparato a tenere per sé i propri sentimenti, poiché nell’appartamento c’era posto per un solo artista tormentato. Solo a Yoko era concesso di dare in escandescenze, avere nevrosi e comportarsi in modo assurdo. In un periodo in cui la depressione clinica non era ancora considerata una malattia emotiva, qualcuno, meno comprensivo, le consigliò di smetterla e tornare in sé. Le dissero di finirla di giocare al genio incompreso e sconvolto e mettersi a lavorare sul serio per cambiare le cose.
Ogni tanto cercava di combattere le giornate nere buttandosi a corpo morto sul lavoro, ma il telefono squillava, la colazione si sarebbe freddata o poteva esserci qualcosa di interessante alla tv via cavo. Forse ci avrebbe riprovato l’indomani.
Le settimane passavano inesorabilmente senza l’ombra di un’idea e cresceva il tacito sospetto che Yoko avesse affogato il suo talento nella tristezza. L’urgenza della creazione forse sarebbe stata maggiore con la prospettiva della fretta commerciale. Ma senza nessuno che la pagasse per sopravvivere mentre soffriva per la propria arte, l’iperattività si ridusse ad un languore rinviato e, sommersa dal tedio, la mente di Yoko vagava ovunque tranne che verso il lavoro non pagato che aveva tra le mani. Quindi tornò temporaneamente alla mia personale definizione di intellettuale: qualcuno che legge molto e pensa molto ma che non fa niente.
Toshi temeva un suo gesto insano, mentre Yoko passava dalla deprimente letargia diurna alla contemplazione notturna del suicidio. Le paure erano più che giustificate poiché, durante un attacco particolarmente violento di autocommiserazione, Yoko tentò di gettarsi dalla finestra. Lo stesso demone che aveva intimato a Van Gogh di tagliarsi l’orecchio stava obbligando Yoko a tentare una fine auto-gestita e, sempre come Van Gogh, nel suo destino c’era una clinica psichiatrica.
In questo limbo che durò fino all’autunno, Yoko si confrontò e fece i conti con la sua agitazione interiore, con l’aiuto di un campanello che poteva suonare ogni volta che i fantasmi di vortici immaginari minacciavano di inghiottirla. A volte le infermiere le somministravano una dose di sedativi maggiore del necessario. Infatti, era piuttosto intorpidita quando un allora sconosciuto giovane di buone speranze si fece strada nel corridoio.


1 Cry: The Johnny Ray Story, J. Whiteside (Barricade, 1994)
2 A Paul Trynka.

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