lunedì 31 gennaio 2011

Capitolo 3 - La sposa (prima parte)

“Ero spesso attratta dal concetto del vagabondaggio”

Dopo qualche settimana di lavoro alla banca di Tokyo, era ormai chiaro che la prigionia non aveva intaccato la fulgida diligenza e abilità di Eisuke: si ritrovò diretto verso la filiale di New York dove un gran numero di dipendenti l’avrebbe definito, entro certi limiti, un capo coscienzioso e leale.
In famiglia godeva dello stesso rispetto, come dimostra la convocazione di Yoko nel suo studio per discutere del futuro, ora che il percorso alla Gakushuin volgeva al termine. Come aveva fatto anche suo padre prima di lui, suggerì amorevolmente a Yoko di accantonare le sciocchezze artistiche come una follia di gioventù. Per dirne una, non aveva mai sentito parlare di una donna compositrice di successo.
 Alla fine però Eisuke, dopo aver fatto più volte appello alla praticità e al buon senso, si arrese e trovò un maestro di canto che potesse insegnare alla figlia le basi dell’opera e del lieder tedesco. Inoltre, invece di iniziare a lavorare “davvero”, Yoko avrebbe potuto dare lezioni d’inglese agli amici della madre che ne avessero avuto bisogno. Si parlò anche, ma solo come ipotesi, della Tokyo Music School, ma Eisuke da New York acconsentì con un telegramma soltanto all’iscrizione di Yoko alla facoltà di filosofia della Gakushuin University. Fu la prima donna a frequentare quel corso.
Pur vivendo a casa, si inserì presto nella vita del campus e, in un inquieto ed onnivoro bagordo di letture, serata dopo serata, faceva le ore piccole in compagnia dei suoi autori preferiti. Lentamente, Yoko acquisì la capacità di discernere quali libri valeva la pena leggere e quali no, ma non avrebbe mai assunto quell’atteggiamento  saccente di chi fa sfoggio della propria erudizione anche oltre l’orario di lezione.
I suoi studi universitari, però, furono bruscamente interrotti quando, dopo due semestri, la sua famiglia decise di trasferirsi a New York, dove Eisuke aveva comprato, invece di affittarla, una casa fuori città, a Scarsdale. Ricca e provinciale, era più vicina alla settentrionale contea di Westchester che alla Grande Mela. Anche se presto sarebbe stata inghiottita dall’avanzata urbana, allora era equidistante dall’aperta campagna e dai grattacieli, troppo vicina per comparire tra le location multi-etniche di West Side Story , all’epoca soltanto un guizzo negli occhi di Leonard Bernstein.
La lunga saga dell’educazione di Yoko continuò a Cambridge, confine di stato e sede dell’Università di Harvard, dove trascorse l’estate riprendendo le lezioni di canto e accumulando i crediti necessari per entrare, nel settembre del 1953, al college Sarah Lawrence. L’esclusivo istituto femminile si estendeva in un bosco di oltre dieci ettari a Yonkers, sulla sponda orientale del fiume Hudson, all’interno della giurisdizione municipale di New York. Era un’istituzione liberale, per certi versi persino permissiva, che, in teoria, con classi a numero ridotto permetteva alle studentesse di seguire e sviluppare le proprie abilità ed inclinazioni.
Nei primi mesi lì, Yoko parlava il meno possibile ed era solita passeggiare da sola, persa tra sogni e mezze ambizioni. Considerandola un po’ eccentrica, qualcuno si divertiva a farla parlare, ad esempio, della sua idea di essere la reincarnazione di Hideyoshi Toyotami, il generalissimo, che, di umili origini, cavalcava ferrato a ghiaccio nelle guerre civili giapponesi di fine ‘500 ed arrivò quasi ad instaurare la dittatura militare in Giappone. Grazie all’esercizio zen, i suoi sanguinari e spietati tentativi di conquiste culminarono in un tempio casalingo di trentamila paia di orecchie coreane in salamoia.
Yoko era anche la protagonista di innumerevoli bon mots ogni volta che i professori confrontavano i suoi voti in sala insegnanti parlando del suo isolamento, concentrandosi sui dettagli tralasciati a lezione con un’apatia che non lasciava spazio alla riflessione né alla più semplice attenzione. Yoko Ono era anche più pratica dei professori per quanto riguardava le tradizioni storiche e le convenzioni artistico-filosofiche e superava la maggior parte di loro nella trascrizione musicale.
Sicurissima dei suoi gusti, Yoko stimava Mozart, ma non il “troppo meccanico”[1] Bach. Tutto sommato prediligeva i compositori con una piega più moderna, in particolar modo Schoemberg, il cui famoso sestetto per archi del 1899 Verklarte Nacht era stato spogliato dell’armonia funzionale e di qualsiasi chiave maggiore e minore. La tonalità era del tutto sospesa nel ciclo semi-parlato di canzoni del 1912, Pierrot Lunaire, da molti (allora come ora) considerato un incubo acustico, ma descritto da Peter Maxwell Davies come “uno dei fondamenti più importanti dell’esperienza musicale del ventesimo secolo”[2]. Yoko era anche un’appassionata di Webern il cui pezzo per orchestra Passacaglia aveva posto fine al suo affabile praticantato con Schoemberg. Tra la musica ortodossa, per struttura e sostanza amava Kurt Weil ed il suo paroliere, lo scrittore marxista Bertolt Brecht, per la loro Verfrtemdungtechnik, una tecnica di straniamento dal valore più riflessivo che sociale.
La musica popolare post-bellica sembra aver avuto poca influenza su Yoko, anche sotto forma di approvazione del divertimento manieristico Dadaista nella cultura-spazzatura. Tutto ciò venne esemplificato da quel riprovevole stralcio di commedia musicale che riuniva il burlesco, lo swing, il finto-smielato e i generi che sfidavano una succinta definizione (a volte inclusa nella canzone stessa) quando virtuosismi strumentali e vocali erano usati per effetti quasi surreali nell’insensatezza artistica di roba come la storpiatura da un milione di copie vendute di “All I Want For Christmas (Is My Two Front Teeth)” di Spike Jones e i suoi City Slickers.
Diffuse dalle radio studentesche, le altre novità della classifica dei dischi venduti del giornale statunitense Billboard (“Here In My Heart” di Al Martino, ad esempio, o “Mister Sandman” delle Chordettes) erano oggetto di divertito disprezzo da parte di Yoko. Per ciò che riguarda il fresco risuonare del tuono rock’n’roll “non riscontravo una gran simpatia o interesse per il mondo avant-garde nel quale vivevo, tutt’altro. C’era una sorta di orgoglio nel non fare parte della scena rock, perché troppo commerciale”[3].
L’interesse di Yoko per le opinioni degli altri era pari a quello di uno scimpanzé dello zoo per i pensieri dei turisti oltre la sua gabbia. Saltava le lezioni per costruirsi un curriculum personale e segreto in biblioteca, presentava saggi dal titolo “A Grapefruit in the World of Park” (Un Pompelmo nel Mondo di Parco, ndr) e metteva in scena spettacoli artistici apparentemente banali, come “Lighting Piece”, che consisteva nell’accendere un cerino e guardarlo spengersi.
Questo colpì il club bohemienne del college, di cui Yoko divenne presto un membro influente. Si rifaceva agli esistenzialisti parigini, che di lì a poco sarebbero stati ridotti dai registi cinematografici a due stereotipi di beatnik saccenti e borghesi: quelli “caldi” (dissertazioni a mitraglietta e sguardi pseudo-psicotici) e quelli “freddi” (silenziosi, immobili e inaccessibili).
Yoko era più vicina alla seconda specie, si fece crescere i capelli lasciandoli spettinati e sciolti e iniziò a vestirsi come Juliette Greco, snella e spettrale sacerdotessa dell’imperturbabilità, attrice musa degli esistenzialisti francesi e artista musicale. Questo sarebbe rimasto il look di Yoko per i successivi vent’anni.


[1] Yoko Ono, J.Hopkins (Sidgwick & Jackson, 1987)
[2] Edgar Varese, A. Clayson (Sanctuary, 2002)
[3] Record Collector, giugno 1992

giovedì 27 gennaio 2011

Capitolo 2- La bambina (seconda parte)


La tensione, che avrebbe raggiunto il suo climax con l’assalto giapponese a Pearl Harbour, cresceva e tutti gli indizi per gli Ono rimandavano all’ultimo posto in cui ci si sarebbe aspettati di trovarli. Isoko ed i bambini si imbarcarono di nuovo per San Francisco, da cui, stipati i bagagli, si sedettero in un vagone diretto a New York, dove Eisuke si era rifugiato da settimane nell’agenzia di  Manhattan della Yokohama Specie, così sommerso dal lavoro che i membri della sua famiglia potevano parlarci solo su appuntamento.
Stanco ed arrabbiato per tutto il tempo passato alla Grand Central Station, ciò che infastidiva Eisuke era una vena di insicurezza riguardo a cosa sarebbe successo se (e non quando) il Giappone, già ufficiosamente coinvolto in un conflitto antimperialista con la Cina, si fosse unito alle potenze dell’Asse contro gli Alleati. L’unità della famiglia contava più della possibilità dell’internamento allo scoppio delle ostilità, ma nella bonaccia intercorsa tra il primo giorno alla nuova banca nel 1940 e il blitzkrieg di Pearl Harbour, era diventato sempre più sentimentale nei confronti di una Tokyo che ormai vedeva avvolta da un’aura rosea. Nella pronuncia di Yoko, intanto, faceva capolino un accento nippo-americano, promosso sia dalla scuola americana che (anche se in misura minore) dagli Ono che, contagiati dalla febbre della mobilitazione, fuggirono indisturbati il giorno di capodanno.
Tecnicamente erano in cinque, poiché Isoko era di nuovo incinta ed avrebbe dato alla luce il suo ultimogenito Setsuko appena prima di Natale. Come era stato per Yoko, anche nei primi anni di Setsuko la figura paterna fu piuttosto evanescente. Il Dipartimento della Difesa, che si occupava dello stallo nel teatro delle operazioni nel Pacifico, convocò Eisuke Ono. Una forza infinitesimale nell’insieme dello sforzo bellico, Eisuke aveva la responsabilità di far andare avanti la Specie Bank di Hanoi il più a lungo possibile, almeno finché gli Alleati potevano essere tenuti a bada dal potere di Hiroito.
Proprio il suo impero pagò le conseguenze di una guerra voluta da lui: ogni città si trasformò in un nugolo di code per gli alimenti e i vestiti, così scarsi da poterli acquistare solo mettendo da parte per settimane i buoni del razionamento o rivolgendosi al mercato nero. Nella loro campana di vetro fatta di privilegi, gli Ono non erano costretti a grandi  sacrifici o a ricorrere a mezzi illeciti  per l’acquisto degli alimenti, ma furono spinti a donare pegni preziosi alla causa della guerra ed obbligati a perdere i membri della servitù a vantaggio di ospedali, fabbriche di munizioni e forze armate.
Una costante, rimasta intatta nei disordini, era l’istruzione di Yoko. Ora frequentava la Keimei Gakuen, una nuova scuola cristiana di Tokyo, dove le fu insegnata la Bibbia da un insieme di religiosi e laici che dovevano parlare inglese a lezione. Tuttavia, mentre la rete degli Alleati si chiudeva sul Giappone, fu decretato che tutti i bambini sopra i 12 anni avrebbero dovuto lavorare nelle file di assemblaggio delle munizioni, ma Isoko scoprì quanto fosse facile per una donna come lei aggirare tali ordini e convinse il preside della Keimei Gakuen a sottrarre due anni dall’età di Yoko sul registro.
Alla fine, comunque, questa bugia non fu poi tanto importante, poiché gli Ono sarebbero presto fuggiti da Tokyo dopo che le campane d’allarme e le sirene avevano iniziato il loro lamento funebre durante la mutilazione della capitale più grande del mondo per mano dei bombardieri US B-29 decollati dalle piste delle Hawaii. Case e teatri, negozi e cinema, edifici pubblici ed interi palazzi capitolavano in una nebbia fumosa o venivano spazzati via da attacchi mirati, notte dopo notte, nei bombardamenti aerei che portavano con sé morte e distruzione, ma che a Yoko ricordavano i passi degli orchi cattivi nelle favole.
Il palazzo dove viveva Akihito non esisteva più. Alberi secolari, nati da giovani arbusti nella calma della periferia, venivano abbattuti come ramoscelli e la superficie fangosa dei canali che intersecavano i loro corsi rifletteva la luce abbagliante delle fiamme, che sgorgavano come fiumi impetuosi lungo le strade, travolgendo ogni ostacolo sul loro cammino. Il catrame venne ridotto ad un ribollio di pece, finché le arterie acquatiche di Tokyo furono seppellite.
Durante la tempesta Isoko e la sua prole si rannicchiavano nel rifugio ricavato nel seminterrato; quando le ombre nemiche sparivano dal cielo, la calma permetteva alla famiglia ed alle altre talpe umane di riemergere trovando credenze ridotte in cocci, materassi bruciati al posto dei letti e schegge dei propri mobili sparse per la strada.
Chi poteva permetterselo fuggiva. Akihito era già partito alla volta di un cottage disperso nei boschi, con l’unica compagnia di un maggiordomo sessantenne e, nel marzo del 1945, anche Isoko prese i suoi bambini e l’ultimo domestico rimasto e si diresse in una casa nelle campagne ai piedi di Karuizawa, un luogo pieno di romantici ricordi.
Dalla radio Isoko seppe che Hanoi era stata presa dagli Alleati, dalla buca delle lettere nessuna notizia su dove si trovasse Eisuke o se addirittura fosse ancora in vita, ma si oppose al quel sentimento d’incertezza  che le aggrovigliava lo stomaco e si adattò meglio che poteva ad una povertà mai sperimentata, scoprendo in sé stessa risorse che non sapeva di avere.
Contrattava con i rozzi paesani vendite strazianti di tesori personali in cambio di cibo; fu costretta a raccontare storie di sfortuna nera a sconosciuti che li guardavano come se avessero avuto soldi a palate; faceva indossare ai figli abiti da contadini fatti col tessuto delle gualdrappe dei cavalli e li mandò alla scuola pubblica del paese dove venivano presi in giro da tutti per il loro comportamento altezzoso.
La situazione era così pesante per Keisuke che sviluppò una vera e propria fobia per la scuola, ma sua sorella maggiore, dopo aver tentato di fare da paciere, iniziò a mostrare i pugni, sfoderò uno sguardo feroce e sperò per il meglio, piuttosto che inghiottire gli insulti o fare spallucce di fronte ai bulli. Inoltre, sotto il regime prosaico e quasi di terrore creatosi in classe, Yoko fece enormi progressi. Oltre a mostrare un’inclinazione per l’arte e la scrittura creativa, la sua memoria fotografica insieme ad una metodica tenacia favorirono la già sviluppata e talvolta enciclopedica percezione delle persone e dei luoghi, delle interazioni e dei risultati. Questo aprì la strada ad altre attività extracurricolari che, all’epoca in gran segreto, le facevano sognare un futuro da compositrice, scrittrice o artista visiva. Era possibile combinare le tre cose? Per ore ed ore si arrovellava su frammenti di versi, prosa, melodie ed illustrazioni con un fine sconosciuto, a parte quello di articolare l’intimo spazio di un cosmo privato che non si aspettava che qualcun’altro capisse, men che meno i suoi insegnanti.
Ma, come ogni altra bambina alle soglie dell’adolescenza, Yoko seguiva con sua madre attraverso la radio le avvilenti notizie dell’avanzata delle truppe statunitensi, sempre più vicine al Giappone, e la successiva “luce di mille soli” che trasformò in terra bruciata Hiroshima e Nagasaki. Questa fu l’ultima goccia che portò alla resa dell’agosto 1945 ed al successivo non-riconoscimento della divinità da sempre onorata dell’imperatore. Fu concesso il diritto di voto alle donne e la maggior parte delle campagne furono date ai coloni (come parte della nuova costituzione occidentale imposta nel 1947). Il paese dovette abituarsi all’onnipresenza, per i successivi sette anni, di  migliaia di distaccamenti Alleati, i cui ufficiali iniziarono a requisire tutti gli hotel e le abitazioni in cui i rubinetti funzionavano ancora.
Quando gli Ono, rinfrescati da mesi di aria di montagna, fecero il loro ritorno nel folle regno di code a cui era ormai ridotta Tokyo, affittarono le loro proprietà ai soldati americani di stanza, che, quando erano in borghese, scorrazzavano per la città in abiti doppio petto, con spallini, colletti a punta, scarpe bicolore e cravatte dipinte a mano raffiguranti indiani d’america o giocatori di baseball. Le selvagge visioni sartoriali, insieme al fumo dei grossi sigari, attiravano sguardi stupiti, ma più spesso pieni d’invidia. Così come accadeva nella Berlino sconfitta e nella Londra vittoriosa, il passaggio di americani a frotte incarnava il nuovo-vecchio paese delle meraviglie e delle opportunità: la Coca Cola, il selvaggio West e gli Ink Spots, il cui canticchiare polifonico avrebbe conquistato anche il Kokusai Theatre di Tokyo nel 1948. Ormai i nuovi coffee-bar erano già fitti al centro della città e pronti a penetrare anche in molte delle zone circostanti con i loro juke-box che urlavano le canzoni degli Ink Spots e di altre pop star americane.
Pur avendo torturato i suoi capelli con una permanente occidentale, a Yoko Ono non era concesso frequentare tali covi d’immoralità e per lei, anche se nei limiti della sconfitta e dell’occupazione, le vecchie regole erano già state ristabilite. Era tornata a scuola con Akihito alla Gakushiun, ma  stavolta Yoko preferì la compagnia di un altro principino, Yoshi, che condivideva con lei l’interesse per la poesia, oltre ad essere la stella del corso di teatro.
All’inizio del 1946 l’ improvviso ritorno del padre da un campo di prigionia cinese rimosse in un batter d’occhio il principale ostacolo alla stabilità familiare.
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lunedì 24 gennaio 2011

Capitolo 2- La bambina (prima parte)


“Non pensavo“Oh, sono figlia unica” Perché quella era l’unica vita che conoscevo”

Ci piacerebbe avere l’impossibile. Il video di una qualsiasi scena svoltasi all’interno delle lignee stanze della residenza degli Ono, ad esempio, o provare con i nostri organi sensoriali come una particolare occhiata, parola o gesto di Isoko abbia influito sulla piccola Yoko. In ogni famiglia c’è sempre un territorio sconosciuto e incomprensibile agli elementi esterni, ma tutti i bambini sono innamorati dei propri genitori sin dalla nascita.
Non c’è Dio all’infuori di Mamma e Papà è il profeta di Mamma.
Tuttavia, nel caso di Yoko, mentre il padre era una figura lontana nella sua infanzia, la coscienziosa ma non amorevole madre rarissimamente dimostrava una qualsiasi emozione sincera o l’affetto in modo fisico a quella figlia che vedeva ma non sentiva. Inoltre, per tutte le faccende quali cambio di pannolini, pappe ed altri aspetti terreni dell’educazione dei suoi figli, Isoko si affidava completamente agli oltre trenta tuttofare, che scimmiottavano i modi dei camerieri di palazzo inchinandosi ossequiosamente, ad esempio, ogni volta che erano in presenza della padrona.
Questo però non significa che Isoko non si occupasse di Yoko, tutt’altro. In realtà, con uno zelo per la pulizia che altri genitori avrebbero ritenuto eccessivo, dette ordine alle tate di tenere sempre pronti alcol e batuffoli di cotone per disinfettare qualsiasi cosa potesse finire tra le mani di Yoko nei luoghi pubblici infestati dagli altri monelli.
Come conseguenza, la stessa Yoko sviluppò una fissazione per l’igiene che sfiorava l’ossessione compulsiva: si lavava le mani finché non erano screpolate e doloranti e lasciava cadere a terra con un tonfo qualsiasi oggetto che conservasse il calore di chi l’aveva tenuto in mano precedentemente.
Inoltre, quando richiesto dall’occasione mondana, accettava senza ribellarsi di farsi lavare il viso con una spazzola e pettinare la lunga chioma fino a far brillare la cute. Poi doveva rispondere in modo educato e scioccamente affabile ogni volta che qualcuno le si rivolgeva con un banale luogo comune. Apparentemente Isoko teneva di più all’approvazione dei suoi pari che alla felicità dei figli e lo dimostrava ostentando il proprio benessere economico e partecipando ad occasioni mondane, come cene impomatate o quegli spettacoli musicali sussurrati dove lo scopo principale della serata era vedere ed essere visti durante l’intervallo.
“Dentro di me sentivo una certa repulsione per l’esibizionismo di mia madre, ma l’ho superata crescendo”[1], fu questa la risposta di Yoko ad un regime che la forzava a tenere a freno le proprie emozioni e le vietava di provare astio o rabbia nei confronti dei genitori, anche quando questi sentimenti erano più che giustificati.
D’altra parte l’essere servita e riverita insieme all’essere lasciata sola con le sue cose per la maggior parte del tempo, rese Yoko una bambina piena di spirito d’iniziativa e perfettamente in grado di badare a sé stessa, tutte caratteristiche interpretate come “testardaggine” da una madre che, convinta di essere padrona della vita della figlia, raramente si fermava a riflettere sul fatto che Yoko potesse avere delle qualità, figuriamoci poi se queste qualità erano diverse dalle sue.
L’ isolamento di Yoko cominciò a manifestarsi nelle foto di famiglia senza sorrisi o nel desiderio di voltare le spalle alla vita nella bambagia per avventurarsi in quelle zone di Tokyo dove vivevano bambini di strada magri e feroci come gatti randagi. All’iperprotetta Yoko era stato insegnato a disprezzare e allo stesso tempo temere quei bambini che ululavano e si azzuffavano con i toni più volgari della città, intenti a schivare il traffico e i carretti di frutta e verdura che affollavano i marciapiedi, ruota contro ruota, sotto quella parte di cielo che ancora era visibile.
In generale, però, Yoko aveva poco a che fare col mondo reale, preoccupato per lo shock causato dal crollo di Wall Street nel 1929, appena dopo la fine degli investimenti statunitensi oltreoceano. Era l’inizio della Grande Depressione: il collasso globale di ogni ordine e grado di impresa con masse di lavoratori improvvisamente disoccupati.
Nonostante tutto, il Giappone sarebbe uscito dagli anni ’30 meglio di molti altri paesi, grazie al rapido sviluppo dell’industria sin dalla prima guerra mondiale. Mentre un secolo prima era stato il regno delle ricche coltivazioni, la terra del Sol Levante stava ora emergendo come una delle principali nazioni industrializzate del pianeta. I confini delle città si erano allargati, inghiottendo le comunità che trovavano sul loro cammino, mentre le strade, i fiumi e le ferrovie si aprivano a raggiera in ogni direzione. Una miriade di prodotti (dai rocchetti di filo alle pesantissime caldaie delle navi a vapore) venivano smistati quotidianamente nelle sovrappopolate aree urbane, piene di magazzini cavernosi ammassati a casaccio. Negli anni precedenti erano state coniate espressioni come “salute ambientale” e già le gigantesche ciminiere degli altiforni e delle fabbriche vomitavano scorie chimiche nei cieli del Giappone ed incrostavano gli angusti alloggi degli operai con una fuliggine indelebile quanto la “macchia dannata” di Lady Macbeth.
Nessuna depressione ciclica, economica o meno, avrebbe potuto turbare la piccola Yoko Ono, quando, a tre anni, in compagnia di sua madre, cinguettava sulla prua della nave diretta a San Francisco, dove avrebbe incontrato suo padre per la prima volta.
Il viaggio non fu privo di incidenti, Yoko infatti fu rimproverata per essersi avventurata nelle cabine di classe economica della nave: “Ricordo che stavo giocando a nascondino, scendevo giù, giù, sempre più giù e, all’improvviso, mi resi conto che c’era scritto “Terzo ordine”. Lì non si poteva andare”[2]. Rimase con gli occhi sgranati sul ponte della nave, persa nelle possibilità che le offrivano le strade costiere californiane tempestate di palme e il tappeto verde dei parchi litoranei a ridosso della curva dell’Oceano Pacifico, mentre l’imbarcazione guadagnava l’ingresso del fiume, arrancando sotto il Golden Gate Bridge. Gettò l’ancora al molo dove Eisuke salutò e si incamminò verso la moglie e la figlia che non aveva mai visto. Obbediente, Yoko lasciò il fianco di Isoko e corse per quei pochi metri che la separavano dalle braccia tese del padre. Subito si sentì sollevare da terra da “quest’uomo statuario, molto alto”, che la baciava e l’abbracciava.
Tra gli altri ricordi che Yoko ha di Eisuke, c’è quello di lui che le misura la distanza tra la punta delle dita e il pollice, concludendo che non è abbastanza per diventare una pianista affermata. Tuttavia, Eisuke assunse un insegnante di piano e fu felice di sapere che valeva la pena spendere i suoi soldi, poiché Yoko era sia ansiosa di imparare, sia abbastanza autosufficiente da distinguere tra la musica e la fatica dell’esercizio quotidiano. Presto fu in grado di passare al livello successivo, eseguendo dei pezzi per gli ospiti sia nella casa in affitto di San Francisco che, nemmeno un anno dopo, in quella di Tokyo.
Eisuke fu però maggiormente colpito dalla voce di Yoko, quando narrava o cantava i miti folcloristici giapponesi e le canzoni popolari che aveva imparato dalla servitù, provocando l’indignazione di sua madre, che sperava che Yoko assimilasse l’inglese, insieme al tip tap, a Shakespeare e a vari altri aspetti della cultura occidentale dopo l’ingresso nella crème de la crème della Gakushuin (o Scuola dei Pari), frequentata anche da Akihito, il Principe Ereditario.
Anche Yoko nutriva queste stesse speranze, perché era e sarebbe sempre stata ansiosa di ottenere l’approvazione dei suoi genitori, anche quando era evidente che stava scappando dalle loro grinfie. Si sforzò quindi di nascondere la gelosia quando, nel dicembre 1937, le  selettive e tanto sudate attenzioni di Isoko si spostarono su qualcun altro, il fratellino Keisuke, così chiamato in onore del padre di Akihito, l’Imperatore Hirohito.
Nel frattempo, il coinvolgimento del Giappone nella vicina guerra incombeva.
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[1] John Ono Lennon, R. Coleman (Sidgewick & Jackson, 1984)
[2]  A Paul Trynka, conversazione privata

lunedì 17 gennaio 2011

Parte 1 -Prima di John/Capitolo 1: La Discendente


 “Non posso definirmi una rappresentante di nessuna tradizione”
La maggior parte delle famiglie ha il vizio di vantare una qualche parentela con persone almeno vagamente famose, ma Yoko Ono (pur condividendo il proprio cognome con mezza popolazione giapponese) può esibire tra i suoi antenati un bisnonno, Atsushi Saisho,  appartenente alla stirpe dell’omonimo leader religioso  del IX secolo, le cui doti incontrarono il favore dell’imperatore. Nell’ 807, con il denaro proveniente dall’erario reale, Saisho fondò la nuova e controversa setta Buddista “Tendai Lotus”. Dopo la costruzione di un monastero, si dedicò alla politica ecclesiastica fino al giorno della sua morte, avvenuta quindici anni dopo e celebrata con tutte le onorificenze del caso. Tra i titoli conferitigli il più importante era quello di Daishi (“Sommo Maestro”), soprattutto perché Saisho fu il primo monaco in Giappone ad esserne investito.
Da Saisho, o uno dei suoi fratelli, discese una dinastia così potente da aver svolto un ruolo fondamentale nel rovesciamento della dittatura militare feudale degli shogun nel 1867, riportando sul trono l’imperatore. Lo stesso Atsushi Saisho fu un luminare all’interno del Consiglio Imperiale sotto il progressista Meji, primo imperatore ad accogliere gli occidentali in quell’arcipelago al largo della costa orientale del continente asiatico.
Oltre a questo primo passo verso l’occidentalizzazione del Giappone, Meji fu anche l’autore del trasferimento della corte reale da Kyoto, sede della famiglia imperiale per oltre un millennio, a quella che sarebbe diventata la nuova capitale del Giappone: Tokyo.
La vita professionale di Atsushi Saisho, nell’occhio del ciclone politico, fu un successo, ma l’avere come unica discendente una figlia, Tsuruko, invece di un maschio era un’onta in un paese che seguiva strettamente la legge secondo cui i maschi avevano la precedenza sulle femmine in fatto di privilegi ed eredità. Tuttavia Saisho, in pubblico, si dimostrò più affettuoso che poteva nei confronti di Tsuruko e non si oppose alla sua scelta di studiare inglese e musica in una scuola di Tokyo.
Tsuruko non uscì dal college soltanto con un diploma. Inizialmente attratta dalla sua musica, abbracciò anche il Cristianesimo, fede fortemente minoritaria in Giappone. Lo zelo con cui la neofita Tsuruko affrontava la dottrina fu tra le motivazioni che la spinsero a sposare Eijiro Ono, che, in quanto rampollo di una famiglia di guerrieri samurai,  era ciò che George Bernard Shaw avrebbe definito un “nuovo povero”, provenendo da una famiglia un tempo agiata.
Eijiro si dimostrò brillante e molto portato per la maggior parte delle materie scolastiche, guadagnandosi un posto nell’istituto di istruzione superiore di Tokyo, frequentò poi un corso post-laurea oltreoceano, nell’università del Michigan, col quale ottenne un dottorato in economia e matematica nel 1890.
Tornato a casa, Ono intraprese diligentemente il difficile mestiere di dirigente  medio presso la Banca del Giappone, valutando colonne di dati e cifre e pungolando colleghi indolenti e loschi uomini d’affari sulla provenienza di certe percentuali e sul perché alcuni interessi non fossero stati pagati. Felici di aver trovato qualcuno che non si limitasse a guadagnare tempo, i suoi superiori lo spinsero un gradino più su: divenne direttore di filiale, poi entrò a far parte del consiglio d’amministrazione ed infine fu promosso presidente della Banca Industriale Giapponese fino alla pensione e, poi, alla morte, avvenuta nel 1927.
Apparentemente Eisuke, terzogenito di Eijiro, sembrava essere fatto ad immagine e somiglianza del padre. Mentre otteneva riconoscimenti accademici simili a quelli paterni, incoraggiato dalla madre, crebbe con la passione per la musica ecclesiastica occidentale. Gli interminabili ascolti dei gracchianti 78 giri e, più raramente, dei concerti dal vivo si tradussero in tentativi di riprodurre le sacre note sul pianoforte del soggiorno. Mentre il padre prestava amaramente l’orecchio agli sforzi del figlio, Eisuke ascoltava affascinato la moglie russa del fratello maggiore che faceva vibrare lo strumento con le note di Monteverdi, Bach e Handel durante i “pomeriggi musicali”, occasioni frequenti nelle famiglie raffinate prima dell’avvento di quell’indispensabile dispositivo chiamato televisione.
Lusingata dall’interesse sorprendentemente sincero del ragazzo, la cognata insegnò ad Eisuke tutto ciò che sapeva, compiaciuta dalla sua volontà di provare e riprovare, sudando sugli esercizi e comprendendo come la musica fosse una scienza oltre che un’arte.
Anche se non sapeva suonare Mozart bendato, l’abilità sulla tastiera di Eisuke era un passaporto per l’alta società: partecipava come ospite più che gradito ai party di Karuizawa (un paese di montagna a nord di Tokyo, meta di villeggiatura privilegiata da giovani aristocratici, nuovi ricchi e diplomatici stranieri) dove, invece del Te Deum e del Mangnificat, o della musica popolare giapponese, era richiestissimo per canzoni spensierate e romantiche ballate che parlavano del “mio paradiso blu ed Ida, dolce come il sidro”[1].
La maggior parte di queste canzoni venivano dagli Stati Uniti, paese in continua ascesa dopo la Grande Guerra, come il paradiso del radicalismo artistico, ora che l’avanguardia americana si era resa indipendente da quella europea. Gli USA stavano dettando le regole in fatto di musica, e ciò fu evidente il 6 marzo 1913 quando la parola “jazz” uscì dal vocabolario slang grazie all’inserimento in un articolo del San Francisco Bulletin riguardante Al Jolson, autore di “The Spaniard That Brighted My Life”, disco da 1 milione di copie vendute, uscito quella settimana.
Stravinsky e il compositore classico mancato George Gershwin erano piuttosto aperti riguardo la loro conoscenza e passione per il jazz, anche se per l’Ebony Concerto scritto per la band di Woody Herman avremmo dovuto aspettare ancora trent’anni.
Lo stesso dicasi anche per l’immigrazione negli Stati Uniti di Stravinsky, avvenuta grazie all’impiego come assistente all’Università di Harvard, nel 1939, un anno che funse per lui da spartiacque. Così l’Europa perse con l’esilio un’altra delle sue menti più eccelse.
Il suicidio del vecchio continente, sia durante la prima Guerra Mondiale che durante la Rivoluzione russa del 1917, fu uno dei fattori che spinsero Marcel Duchamp a bussare alla porta del collega Man Ray, a New York, con in regalo una sfera di vetro contenente “aria parigina”.
Per ragioni simili, Edgar Varese, in coppia con Stravinsky, in quanto entrambi figure di spicco ed eminenze grigie della musica del XX secolo, lasciò la Francia per New York. Il mattino successivo al suo arrivo, prese un tram per il Greenwich Village, un quartiere della Lower Manhattan che gli avevano assicurato sprizzare di vita bohemienne quanto Montparnasse, dove si incontravano poeti, pittori, musicisti e simili sin dal 1840, epoca in cui Walt Whitman ed un Edgar Allan Poe ormai malato erano stati quasi vicini di casa là.
In quel periodo, quando Duchamp entrava in un caffè, si creava subito un movimento di sedie, uno spostamento di tavolini, nel desiderio di avvicinarsi a lui ed interrogarlo devotamente su vari aspetti dell’arte, accettando con riverenza ogni parola che usciva dalle sue labbra. L’artista moderno, secondo lui, non avrebbe più dovuto produrre una bella immagine su un soggetto specifico. Per quello c’era la fotografia. Un dipinto o una scultura non avevano più bisogno di rappresentare qualcosa di riconoscibile. Rappresentando soltanto sé stessi, la loro unica ragione d’essere era toccare lo spettatore in qualche maniera, anche per motivi impossibili da definire.
Tali teorie non erano esclusivamente attribuibili a Duchamp, infatti, a seguito della Grande Guerra, il Greenwich Village aveva iniziato ad ospitare le cellule di un movimento artistico sempre più impetuoso e coeso di cui egli era il principale esponente. Forse il punto era quasi quello, ma il senso di solidarietà più formale  era stato fissato da una setta che rinnegava sia la forma che la solidarietà. Il conflitto sul Dadaismo (alias “l’anti-arte”, “l’avanguardia dell’avanguardia”, “l’arte come vita”) è tutt’ora aperto, ma le premesse fondamentali erano comunque che tutta l’arte è melma e che chiunque può creare arte, non importa quanto assurdo, triviale o pretenzioso sia il risultato, sempre che ce ne debba essere uno.
Secondo molti, il Dadaismo nacque a Zurigo durante la guerra, per poi diffondersi a Berlino, Hannover (con un certo Kurt Schwitters come unico esponente), Parigi, New York e altrove. Ebbe un maggiore impatto sulla letteratura e sulle arti visive, come dimostrato dalle variegate risonanze quali le “poesie sonore” non-lessicali di Schwitters, l’essenza filosofica non-impegnativa di Gurdjieff e la preoccupazione del “nulla importa”, che è la concezione comunemente nota dell’esistenzialismo. Ci sono degli elementi dadaisti anche nel moderno Stuckismo (o “rimodernismo”) che “abbraccia tutto ciò che denuncia” come ad esempio la pecora morta (messa in mostra da Damien Hirst) o il letto sfatto (Tracey Emin) in lizza per il premio Turner a fine anni ’90.
Un punto ovvio nel manifesto Stuckista è che “l’opera di Duchamp era una protesta contro la comunità artistica non-pensante e stantia della sua epoca” [2].
Con una innata consapevolezza di ciò, l’American Society of Independent Arts negò a Duchamp l’esposizione dell’opera Fountain (un urinale con su scritto “R. Mutt 1917”) nella sua prima mostra. Questo gesto di sfida segnò la nascita del Dadaismo newyorkese come pura provocazione.
Nel maggio 1917 Duchamp giustificò Fountain come arte “ready made” (“una polemica di materialismo”) nel secondo numero di The Blind Man, periodico dadaista auto-finanziato. Il suo editoriale dette vita anche a R(ichard) Mutt, con una biografia in cui si specificava anche il suo numero di telefono.
Il Dadaismo fu divertente finché durò. Inoltre, si era fatto strada fin nei pettegolezzi da soirée di Karuizawa, in modo misterioso quanto quello per cui un particolare marchio di calzature era arrivato a St. Kilda, l’arcipelago più estremo delle Ebridi,  nemmeno un anno dopo il suo ingresso nella Londra chic del diciannovesimo secolo.
Eisuke Ono potrà aver ridacchiato per lo humour sardonico e pungente del Dadaismo, molto simile al suo, ma non si sforzò né di capire né di simpatizzare con i suoi principi o con quelli simili del Futurismo, del Surrealismo e di altri modernismi che, quando venivano menzionati nelle pagine dei quotidiani, causavano stupore e frequente disprezzo nei frequentatori di salotti a Karuizawa. Per Eisuke, dunque, le sfide intellettuali e sonore del sistema dodecafonico di Schoemberg (ormai pienamente mobilitato), per fare un esempio, erano impenetrabili quanto un cristallo. Lo stesso dicasi per la testardaggine cromatica di Carl Ruggles o per Henry Cowell, pioniere dell’indeterminatezza formale e dei pianoforti “trattati” con ronzii e rumori sordi di lime per unghie, graffette, cucchiaini e altri oggetti di uso comune, tutti controbilanciati dai passi del pubblico che chiedeva di ripetere le performance, senza essere esaudito.
Niente di tutto ciò combaciava con l’immagine di artista serio che Ono aveva di sé, anche se proponeva con garbo ciò che aveva ironicamente ammucchiato sotto l’etichetta “jazz” per smoking incravattati, scollature imperlate e volti abbronzati sulle piste da sci di Karuizawa.
Ventunenne, dal parlare pacato e di una bellezza timorosa, Isoko ascoltava queste interpretazioni con un sorriso incerto, ma rimase rapita quando Eisuke, inserendo il pilota automatico alle dita, scavava nei pezzi che tutti conoscevano dai classici. Dal semplice interesse, Ono si stava impossessando, gradualmente e inconsapevolmente, di Isoko, che si ritrovò a sussultare di piacere quando un sorriso che svelava una dentatura perfetta veniva indirizzato a lei.
Da parte sua Eisuke si domandava se, alla soglia dei trent’anni, non fosse arrivato il momento di trovarsi una moglie. In fondo non era poi così brutto, no? Sicuramente giravano delle voci sul suo conto circa flirt e storielle con alcune delle signorine più giulive di Karuizawa. In confronto a loro, decise, Isoko era una penna stilografica in mezzo a dei mozziconi di matita, ed iniziò un timido corteggiamento fatto di finta indifferenza ed indagini contorte.
Dopo l’innamoramento tra Isoko ed Eisuke, i genitori buddisti di lei rimasero sconvolti dall’annuncio del matrimonio, preoccupati per la fede cristiana di lui e, soprattutto, per la sua ostinazione a guadagnarsi da vivere come pianista, una scelta di carriera poco saggia a meno che non si sia nati nel mondo dello spettacolo. A dire il vero, soltanto l’idea che un giovanotto di buona famiglia come Eisuke si arrischiasse così nel mondo del lavoro, per molti giapponesi della media-borghesia era deplorevole quanto quella di una figlia dello stesso status sociale che si dedicava alla prostituzione.
I Signori Yasuda portarono il problema all’attenzione della matriarca della famiglia, la nonna materna di Yoko, la cui salute andava peggiorando da quando il marito Zenjiro era stato lasciato ad esalare il suo ultimo respiro con la faccia a terra e la bocca aperta in una strada di Tokyo. Etichettato come conservatore sin da giovanissimo, era stato aggredito da un gruppo omicida di estrema sinistra (forse semplici agenti provocatori) apparentemente infuriatisi per il suo rifiuto silenzioso di dare anche solo una monetina per la loro causa.
Il suo funerale fu organizzato in pompa magna, poiché Zenjiro Yasuda era stato al timone di una barca solida ed antica, in quanto fondatore della Yasuda Bank, specializzata in investimenti ed assicurazione di immobili, che aveva allungato i suoi tentacoli in Europa e nel Nord America. Era quindi una figura di spicco in uno dei consorzi di imprese più fiorenti e rispettati del Giappone. In un ambiente del genere il nepotismo era scontato. Yasuda aveva istruito come suo successore il genero Iomi Teitaro, padre di Isoko, e potrebbe aver mosso i fili per  metterlo a capo, nel 1915, dell’equivalente giapponese di una contea, a patto che Iomi cambiasse il suo nome all’anagrafe in Zebsaburo Yasuda.
Isoko era la più piccola degli otto figli (quattro maschi e quattro femmine) di Iomi/Zebsaburo e Teruko, l’adorata figlia maggiore di Zenjiro. La famiglia viveva ad un passo dal palazzo reale, sulla collina più alta di Tokyo e possedeva una macchina molto prima di chiunque altro in città. Dalle loro finestre Isoko e i suoi fratelli avevano notato, senza mai parlarci, bambini e bambine poveri e scalzi che giocavano nei vicoli di una città che cresceva disordinatamente con il sovrapporsi di paesi in cui i cavalli sarebbero rimasti più delle macchine fino ad anni ’20 inoltrati. Isoko ed i suoi fratelli ebbero quindi un’infanzia protetta e fondata sulle buone maniere, anche grazie ad incentivi generosi (a volte le bambine ricevevano diamanti) per comportarsi bene in quelle che, inutile a dirsi, erano le scuole più esclusive e costose di Tokyo. Conoscevano pochi bambini con uno stile di vita diverso dal loro.
Se Eisuke Ono proveniva da una famiglia benestante e dell’alta società come la loro, perché non capiva che una carriera come artista era instabile, un ripiego professionale? Durò poco. D’accordo con i suoi genitori, i signori Yasuda convinsero Eisuke a ragionre e lui, seppur con qualche protesta a mezza voce, accettò di mettere da parte l’idea di guadagnarsi da vivere come musicista, obbedendo alla regola non scritta della borghesia che gli imponeva di seguire le orme del padre e del suocero. Così Eisuke Ono sposò Isoko Yasuda e, ritrovandosi ad odiare il proprio fastidioso ed innato talento per la finanza, accettò a malincuore di lavorare alla Yokohama Specie Bank. Uno dei lati positivi e più materiali della faccenda fu che si sarebbe trasferito da una comoda abitazione all’enorme tenuta della nonna, recentemente defunta, di sua moglie.
Qui, alle 8 e 30 del 18 febbraio 1933, l’anno dell’Uccello, in un mattino nevoso, la prima figlia di Eisuke e Isoko venne al mondo. Un primogenito maschio sarebbe stato più gradito, ma erano entrambi soddisfatti, poiché il travaglio di Isoko era proceduto senza problemi e la neonata era robusta. La chiamarono Yoko, “figlia dell’oceano”, poiché era nata sotto il segno dei Pesci. Per i genitori giapponesi è di grande importanza anche il numero della nascita, dato dalla somma delle cifre della data di nascita del bambino; per Yoko era il 9 (1+8+2+1+9+3+3 =27 e 2+7=9), numero che rappresenta la trinità delle trinità per i cristiani per cui esistono 9 regni dei cieli, 9 ordini degli angeli e 9 regioni dell’inferno.
Eisuke, per ottenere la mano di Isoko, aveva ceduto su molti punti ma non aveva mai accettato di abbracciare il Buddismo. Nonostante ciò Zebsaburo e Teruko avevano trovato in lui un genero-modello, anche se molto riservato, che si dedicava con zelo al lavoro tanto da accettare con stoicismo l’impegno di lasciare il Giappone 15 giorni prima della nascita di Yoko. Era stato trasferito dalla banca ad una filiale di San Francisco con la richiesta di restarvi fino a nuovo ordine.
Eisuke sarebbe stato costantemente all’estero per i primi 3 anni di vita di sua figlia. Tuttavia, attraverso l’enigmatico mistero della sua foto appesa al muro, continuò a vegliare sulla condotta della famiglia anche da lontano, specialmente per ciò che riguardava il valore del denaro e l’insegnamento secondo cui il duro lavoro e la tenacia sono il segreto del successo.

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[1] “Ida Sweet as Apple Cider”, famosa canzone di Frank Sinatra (n.d.t.)
[2] Stuckist pamphlet, 11 Aprile 2000 (Hangman Bureau of Enquiry). Vedi anche www.stuckism.com.

giovedì 13 gennaio 2011

Prologo

Il mondo continuerà sempre a classificare Yoko Ono in base al suo rapporto con John Lennon ed i Beatles.
Per l’uomo medio Yoko Ono rimarrà sempre una figura comparsa all’improvviso poco dopo la morte del manager Brian Epstein, nel 1967.
Presto in molti avrebbero cominciato ad interrogarsi riguardo all’attività sempre più imprevedibile dei Beatles come gruppo: l’arrivista americano Allan Klein sarebbe diventato nel 1969 il nuovo “addetto agli affari” di Lennon, mentre Ono aveva già sostituito McCartney come spalla artistica di John e Cynthia Powell (la prima Signora Lennon) nel suo letto.
Il primo album di Ono e Lennon insieme, Unfinished Music no.1: Two Virgins, più che per i contenuti del vinile, attirò l’attenzione per le foto di copertina, che ritraevano la coppia nuda. Era, come spiegarono, una “dichiarazione artistica”. L’uomo qualunque rimase comunque troppo sconcertato per dare una “seconda possibilità artistica” a questa e ad altre sconcertanti marachelle come i “Bed-in”, spedire ghiande ai leader mondiali, il “Bagism” (performance che consistevano nell’infilarsi in sacchi di iuta) e Self-Portrait, un film il cui protagonista era il pene di Lennon.
Già devoto a Yoko con una promessa più simbolica di qualsiasi anello, Lennon la sposò nel Marzo 1969. La cerimonia è citata in “The Ballad of John e Yoko”, l’ultimo numero uno dei Beatles nelle classifiche inglesi. Come la maggior parte dei fan dei Beatles, il loro biografo ufficiale Hunter Davies additava (e continua ad additare) “l’arrivo di Yoko nella vita di John” come causa dello scioglimento del gruppo.
In ogni caso, Yoko si era già fatta un certo nome (o una nomea) prima di conquistare il cuore di John. Nelle zone avanguardiste del mondo dell’arte (e della musica) era conosciuta, sin dalla fine degli anni ’50, come autrice estremamente strategica di performance. Anche se c’erano tutti i presupposti per arrivare molto più in alto, Ono perse gran parte della stima culturale dopo l’incontro con i Beatles; ma, d’altra parte, proprio grazie a questo incontro i suoi pensieri e le sue teorie (molte delle quali, per i non addetti ai lavori, sembravano sprovviste di pathos iniziale quanto una commedia di Ernie Wise[1]) raggiunsero un pubblico molto, ma molto più ampio di quanto avrebbero potuto fare altrimenti.
Comunque, dopo l’assassinio di Lennon su un marciapiede di New York nel 1980, la vedova è quasi (anche se non del tutto) entrata in un’orbita separata da quella sua e dei suoi ex compagni di band.
Questo resoconto è, credo, l’equivalente letterario dell’“happening” di Yoko del 1962, quando proiettò un film hollywoodiano chiedendo agli spettatori di concentrarsi solo sulla protagonista femminile. Per bilanciare gli avvenimenti e le opinioni trovate, è stato scritto da tre autori molto diversi. Tra loro i confini si sovrappongono solo leggermente, mentre Barb Jungr analizza il percorso artistico di Ono, Alan Clayson racconta i periodi prima e dopo Lennon e Robb Johnson indaga nella sua vita insieme al leader dei Beatles, senza tralasciare il ricco contesto politico, sociale ed economico.
Cercando di far luce su questo mistero sull’indovinello nell’enigma che è Yoko Ono. 
©2011 Gelsomina Sampaolo All Rights Reserved

[1] Comico inglese attivo dagli anni ’40 agli anni ’80, un’istituzione della tv britannica.

Questo non è un blog

Questo non è un blog.
Sembra un blog, ha l'indirizzo di un blog, funziona come un blog, ma, se lo guardate bene, scoprirete che in realtà è un libro. Perchè non pubblicarlo sulla carta come fanno tutti? Beh, perchè la cosa non è facile, anzi, ha dell'impossibile. Sono esattamente 4 anni che ci sto provando, in ogni modo possibile, anche stressando persone che non ho mai visto e che non avrebbero alcun motivo per dirmi di sì (e infatti si sono guardate bene dal farlo). Vorreste sapere di che si tratta, vero? Ancora un po' di pazienza, prego. Vi sarà utile sapere che chi scrive è una traduttrice con una voglia di lavorare inversamente proporzionale alla disponibilità occupazionale italiana. Ho tradotto il misterioso libro in questione per pura passione e sono riuscita anche a laurearmici sopra...se non è ostinazione questa. Si tratta di una commistione fra cultura pop, arte, studi di genere e musica. Si tratta della vita incredibile di una donna, di un'artista, di una musicista, ma spesso nota solo per essere una moglie, anzi, al momento una vedova. Signore e signori, vi presento "Woman, the Incredible Life of Yoko Ono".


Questo volumetto è edito da Chrome Dreams (a cui vanno tutti i diritti, oltre che tutta la mia stima) ed è stato sapientemente scritto da tre menti artistiche, che vanno sotto il nome di Alan Clayson, Barb Jungr e Robb Johnson. Questi signori sono nel novero di chi ha dovuto sopportare le mie insistenti richieste di aiuto/consiglio per i passati 4 anni e direi che anche solo per questo meritano grande considerazione. Dato che in Italia non esiste una biografia di Yono Ono onesta (e questo esclude automaticamente i volumetti che si limitano a sproloquiare sul suo piano diabolico per sciogliere i Beatles -il che, a parer mio, svilisce anche molto la capacità di libero pensiero dei Fab Four), ho deciso di tradurre per tutti (e gratis!) questo libro. Se vi interessa la versione originale in lingua inglese lo troverete nelle migliori librerie on-line (tipo qui ), ma visto che ci sono poche illustrazioni e il libro è piuttosto lungo, direi che i più pigri possono anche leggerselo qui, nelle puntate che seguono.
E fatemi sapere cosa ne pensate! Perchè la mia domanda, a questo punto, è: come mai tutti si interessano ai Beatles, fioccano pubblicazioni su Lennon (per non parlare dei gadgets) e a nessuno interessa sapere chi davvero è Yoko Ono? Vogliamo continuare a credere che sia solo una streghetta venuta dall'est per mettere zizzania nel mondo del pop? A voi la scelta...