martedì 15 febbraio 2011

Capitolo 5 - L'abitante del Village


“Mi sentivo come se stessi comunicando con tutte le divinità. Speravo di risvegliare quell’elemento nella gente, quella parte del loro cervello, invece di sentirli dire: “Oh-oh! La ragazza seduta sul palco è nuda”, ma non penso di esserci riuscita.”

Il secondo matrimonio di Yoko cominciò a prendere la brutta piega del primo. Ben presto Tony cominciò ad essere raramente a casa, tanto che Yoko trascorreva più tempo con Alfred Wunderlick, un amico di famiglia, suo compagno alla scuola d’arte.
Per la metà del 1964 erano già iniziate le pratiche per la separazione. Yoko fu ritenuta negligente sia come moglie che come madre e Tony portò Kyoko a mezzo mondo di distanza da lei, per la precisione al Greenwich Village di New York dove le cose erano diverse, ma uguali. Lasciando lo spazio aereo del Giappone, Cox slacciò pensoso la cintura di sicurezza: non poteva evitare di pensare a certa gente del Village nei loro tipici atteggiamenti, nelle stesse azioni che svolgevano l’ultima volta che c’era stato. Sicuramente avrebbe rivisto ogni giorno John Cage che faceva la spesa o osservava i tornei di scacchi all’aperto a Washington Square. Col suo strano aspetto da moribondo, quale era in realtà, Edgar Varese ingurgitava ancora il suo caffè turco alla finestra del Romany Marie’s cafè.
Se Varese era il re sconosciuto del Village, Louis Thomas Hardin, alias Moondog, era un principe bastardo, con la sua “immagine” migliorata dalla cecità, indumenti ricavati da lenzuola dell’esercito e una sorta di elmetto che lo faceva apparire come un incrocio tra un druido e un condottiero scandinavo. Era un compositore che aveva costruito i suoi strumenti e con la moglie Suzuko (che pizzicava il samisen, simile al liuto) suonava per qualche spicciolo al suo solito posto per strada, in Times Square.
Oltre ogni dubbio, si poteva ben supporre che Moondog sarebbe stato un personaggio del Village vita natural durante, al contrario del cabarettista Lenny Bruce, che beveva roba ben più pesante del caffè turco di Varese tutte le sere al Louie’s Bar, un ritrovo con la segatura per terra e il juke-box.
Bruce stava diventando famoso in tutto il paese per un tipo di humour (e non humour) che consisteva nell’uso di parolacce nel ristretto codice giovanile, in monologhi dai titoli: “Impiegati Ubriachi”, “Il Grande Dago di Don” e “Come far rilassare i vostri amici di colore alle feste”. Un tempo era ospite fisso al Bitter End, un club che era diventato ciò che era quando il movimento per i diritti civili si era fuso con le canzoni folk sotto l’etichetta di “protesta”. Tra gli esponenti del genere presentati lì e in altri luoghi importanti del Village c’erano Woody Guthrie, Pete Seeger, Peter, Paul and Mary, Phil Ochs, Tim Rose e colui che sarebbe diventato il più famoso di tutti: Bob Dylan.
C’era anche spazio per i disparati gusti di Bruce: il bardo beatnik Allen Ginsberg, i Four Seasons, Chuck Berry e Jerry Van Dyke, fratello dell’attore comico Dick. All’intrattenimento non ufficiale provvedeva il proprietario del Bitter End, Paul Colby, raccontando bonariamente infiniti aneddoti su Dylan che assillava le cameriere o su Tim Rose “che aveva forzato il mio armadietto dei liquori e aveva bevuto fino a perdere i sensi”[1], sottintendendo comunque che un tale comportamento era prerogativa delle stelle, anche se di un tipo di stelle “il più lontano possibile dal mainstream”.
Tony Cox, comunque, era meno incline a frequentare il Bitter End, il Louie’s Bar o il Romany Marie’s, impegnato a costruirsi una rete di contatti tra chiacchiere isteriche, lunghi imbonimenti e compiaciute pacche sulle spalle alle soirées e alle prime dell’elite artistica del Village. Per quanto riguarda il nostro uomo e il Giappone, veniva assalito da domande sulla scena del posto con inevitabili e specifici riferimenti a Yoko, le cui copie importate di Grapefruit erano in vendita in poche librerie e i cui dipinti ricoperti di nero erano ancora alle pareti del trendy Paradox (ormai ristorante macrobiotico).
Fatidicamente, il vecchio mentore di Yoko, Gorge Maciunas, era rimasto entusiasmato da lei in quanto portavoce principale e organizzatore dell’esclusiva ala di sopravvissuti del Fluxus, non tanto un gruppo quanto un “collettivo” (a Colonia ed altre città della Germania Ovest, così come a New York) votato ad abbattere le barriere tra l’Arte  e la “vita vera”. Al loro livello più becero, i concetti erano in genere più intriganti delle loro esecuzioni, in questo rimaneggiamento Dada con pronunciate sfumature di futurismo, Cabaret Voltaire, action painting, Pop Art e, soprattutto, operazioni casuali alla Cage.
C’era anche un forte gusto per l’autodistruzione, nato dall’artista anglo-tedesco Gustav Metzger, che iniziava ad insinuarsi anche nella musica pop, soprattutto in Gran Bretagna dove The Who e The Creation chiudevano i loro concerti, rispettivamente, sfasciando la strumentazione e schizzando vernice su una tela che faceva da sfondo, cosa dovuta più a Tony Hancock che a Jackson Pollock.
Con l’ex alunno del Moseley Art College, Roy Wood, al timone creativo, i The Move avrebbero influenzato le coscienze del regno alla fine del 1965 con un programma in cui il cantante Carl Wayne sul palco abbatteva con un’accetta le effigi dei leader politici mondiali, per poi rivolgere la sua attenzione a delle tv che implodevano. Se questa non è Arte, allora cos’è?
I gusti di George Maciunas, di Tony Cox e, al suo ritorno a novembre, di Yoko Ono non sembravano coscienti di una qualche integrazione seria dell’arte moderna nel pop (invece che il viceversa della Pop Art) quando, dopo una performance inaugurale, a Wiesbaden nel 1962 sotto l’egida dell’artista grafico Wolf Vostell, Fluxus si manifestò principalmente in eventi più cospicui che mai, col tentativo di coinvolgere gli spettatori ad un livello inconscio e non più razionale. Tuttavia, di quando in quando, qualche spettatore scocciato avrebbe anche potuto liquidarli con una mezza risata, con tutto quel mormorare, strillare sciocchezze, fare macello con la vernice, fare un baccano infernale e comportarsi in modo osceno come, per esempio, in una famosa, rumorosa e abbondante defecazione sul palco.
Fluxus era ormai diretto verso la stessa impasse elitaria del movimento meno coeso di cui aveva fatto parte Yoko prima della deprimente serata alla Carnegie Hall. Personalità mascherate da principi, bisticci interni da crociate e la combriccola restava nell’oscurità, non emergeva alla luce del sole perché, tacitamente, l’accettazione pubblica era temuta dal pesce grosso nella piccola pozzanghera di Fluxus. “Fluxus è stato il gruppo più sperimentale in assoluto della sua epoca”, ha dichiarato Yoko sorridente e con una punta d’orgoglio, “chiunque facesse del lavoro sperimentale ci conosceva e prendeva idee da noi per renderle commerciali. Le loro cose vendevano, ma le nostre erano troppo oltre per essere vendute”[2].
Per l’epoca, comunque, Yoko era nel suo habitat naturale e divenne rapidamente il corpo e l’anima del movimento Fluxus. Mentre nel negozio a due fermate di metropolitana da lì era soltanto una cliente anonima, nelle immediate vicinanze del Greenwich Village diventava “la Somma Sacerdotessa dell’Happening”, il cui ritorno era stato segnato da una collaborazione in sordina con Angus MacLise, Music For Dance, recuperata molto tempo dopo per l’ultima, inimitabile esecuzione ai tamburi di MacLise, “come una poesia”, secondo l’amico Piero Heliczer[3].
La droga offuscava i particolari deliri nell’opera di Angus e Yoko, le disgrazie portarono molta insicurezza tra gli “illuminati” e gli altri pesci piccoli, ma il peccato cardinale stava per palesarsi. La disperazione visibile era un promemoria troppo duro della caducità dell’ispirazione artistica e della celebrità, anche tra i negozi chiusi e introspettivi della folla artistica del Village.
Mentre Yoko cercava di non far vedere il suo sforzo in pubblico, i suoi crucci privati vennero fuori dietro nello studio dove vivevano Tony e Kyoko e dove si era sistemata prima che diventasse troppo pesante andare avanti come se nulla fosse successo a Tokyo. La situazione era stata congelata per un po’, alla fine erano di nuovo una famiglia, Yoko dormiva con Tony e lui faceva il “casalingo” mentre lei lavorava alla sua carriera, anche se ad ogni atto creativo erano connessi una dozzina di processi meccanici. Gran parte delle giornate passavano scrivendo lettere di supplica ai direttori delle gallerie, ai giornalisti, alle personalità mediatiche e ad artisti più famosi.
Tutto il suo tartassare venne ripagato da una lunga intervista sulla rivista The Villager accompagnata da un ottimo articolo. Com’era solita fare allora, la presa di Yoko alle cose pratiche (sia a livello di budget che fisico) si allentava quando doveva confidarsi col blocchetto dei giornalisti. Tuttavia, questo le procurò un posto nella sezione artistica del New York Times. Andava bene qualsiasi cosa, pur di pubblicizzare il suo ritorno alla sala piccola della Carnegie Hall, il 21 marzo 1965.


[1] The Bitter End: Hanging Out At America’s Night Club, P.Colby e M. Fitzpatrick (Cooper Square Press, 2001)
[2] Record Collector, giugno 1992
[3] The Velvet Underground Companion, A. Zak (a cura di), (Omnibus, 1997)

Nessun commento:

Posta un commento