lunedì 31 gennaio 2011

Capitolo 3 - La sposa (prima parte)

“Ero spesso attratta dal concetto del vagabondaggio”

Dopo qualche settimana di lavoro alla banca di Tokyo, era ormai chiaro che la prigionia non aveva intaccato la fulgida diligenza e abilità di Eisuke: si ritrovò diretto verso la filiale di New York dove un gran numero di dipendenti l’avrebbe definito, entro certi limiti, un capo coscienzioso e leale.
In famiglia godeva dello stesso rispetto, come dimostra la convocazione di Yoko nel suo studio per discutere del futuro, ora che il percorso alla Gakushuin volgeva al termine. Come aveva fatto anche suo padre prima di lui, suggerì amorevolmente a Yoko di accantonare le sciocchezze artistiche come una follia di gioventù. Per dirne una, non aveva mai sentito parlare di una donna compositrice di successo.
 Alla fine però Eisuke, dopo aver fatto più volte appello alla praticità e al buon senso, si arrese e trovò un maestro di canto che potesse insegnare alla figlia le basi dell’opera e del lieder tedesco. Inoltre, invece di iniziare a lavorare “davvero”, Yoko avrebbe potuto dare lezioni d’inglese agli amici della madre che ne avessero avuto bisogno. Si parlò anche, ma solo come ipotesi, della Tokyo Music School, ma Eisuke da New York acconsentì con un telegramma soltanto all’iscrizione di Yoko alla facoltà di filosofia della Gakushuin University. Fu la prima donna a frequentare quel corso.
Pur vivendo a casa, si inserì presto nella vita del campus e, in un inquieto ed onnivoro bagordo di letture, serata dopo serata, faceva le ore piccole in compagnia dei suoi autori preferiti. Lentamente, Yoko acquisì la capacità di discernere quali libri valeva la pena leggere e quali no, ma non avrebbe mai assunto quell’atteggiamento  saccente di chi fa sfoggio della propria erudizione anche oltre l’orario di lezione.
I suoi studi universitari, però, furono bruscamente interrotti quando, dopo due semestri, la sua famiglia decise di trasferirsi a New York, dove Eisuke aveva comprato, invece di affittarla, una casa fuori città, a Scarsdale. Ricca e provinciale, era più vicina alla settentrionale contea di Westchester che alla Grande Mela. Anche se presto sarebbe stata inghiottita dall’avanzata urbana, allora era equidistante dall’aperta campagna e dai grattacieli, troppo vicina per comparire tra le location multi-etniche di West Side Story , all’epoca soltanto un guizzo negli occhi di Leonard Bernstein.
La lunga saga dell’educazione di Yoko continuò a Cambridge, confine di stato e sede dell’Università di Harvard, dove trascorse l’estate riprendendo le lezioni di canto e accumulando i crediti necessari per entrare, nel settembre del 1953, al college Sarah Lawrence. L’esclusivo istituto femminile si estendeva in un bosco di oltre dieci ettari a Yonkers, sulla sponda orientale del fiume Hudson, all’interno della giurisdizione municipale di New York. Era un’istituzione liberale, per certi versi persino permissiva, che, in teoria, con classi a numero ridotto permetteva alle studentesse di seguire e sviluppare le proprie abilità ed inclinazioni.
Nei primi mesi lì, Yoko parlava il meno possibile ed era solita passeggiare da sola, persa tra sogni e mezze ambizioni. Considerandola un po’ eccentrica, qualcuno si divertiva a farla parlare, ad esempio, della sua idea di essere la reincarnazione di Hideyoshi Toyotami, il generalissimo, che, di umili origini, cavalcava ferrato a ghiaccio nelle guerre civili giapponesi di fine ‘500 ed arrivò quasi ad instaurare la dittatura militare in Giappone. Grazie all’esercizio zen, i suoi sanguinari e spietati tentativi di conquiste culminarono in un tempio casalingo di trentamila paia di orecchie coreane in salamoia.
Yoko era anche la protagonista di innumerevoli bon mots ogni volta che i professori confrontavano i suoi voti in sala insegnanti parlando del suo isolamento, concentrandosi sui dettagli tralasciati a lezione con un’apatia che non lasciava spazio alla riflessione né alla più semplice attenzione. Yoko Ono era anche più pratica dei professori per quanto riguardava le tradizioni storiche e le convenzioni artistico-filosofiche e superava la maggior parte di loro nella trascrizione musicale.
Sicurissima dei suoi gusti, Yoko stimava Mozart, ma non il “troppo meccanico”[1] Bach. Tutto sommato prediligeva i compositori con una piega più moderna, in particolar modo Schoemberg, il cui famoso sestetto per archi del 1899 Verklarte Nacht era stato spogliato dell’armonia funzionale e di qualsiasi chiave maggiore e minore. La tonalità era del tutto sospesa nel ciclo semi-parlato di canzoni del 1912, Pierrot Lunaire, da molti (allora come ora) considerato un incubo acustico, ma descritto da Peter Maxwell Davies come “uno dei fondamenti più importanti dell’esperienza musicale del ventesimo secolo”[2]. Yoko era anche un’appassionata di Webern il cui pezzo per orchestra Passacaglia aveva posto fine al suo affabile praticantato con Schoemberg. Tra la musica ortodossa, per struttura e sostanza amava Kurt Weil ed il suo paroliere, lo scrittore marxista Bertolt Brecht, per la loro Verfrtemdungtechnik, una tecnica di straniamento dal valore più riflessivo che sociale.
La musica popolare post-bellica sembra aver avuto poca influenza su Yoko, anche sotto forma di approvazione del divertimento manieristico Dadaista nella cultura-spazzatura. Tutto ciò venne esemplificato da quel riprovevole stralcio di commedia musicale che riuniva il burlesco, lo swing, il finto-smielato e i generi che sfidavano una succinta definizione (a volte inclusa nella canzone stessa) quando virtuosismi strumentali e vocali erano usati per effetti quasi surreali nell’insensatezza artistica di roba come la storpiatura da un milione di copie vendute di “All I Want For Christmas (Is My Two Front Teeth)” di Spike Jones e i suoi City Slickers.
Diffuse dalle radio studentesche, le altre novità della classifica dei dischi venduti del giornale statunitense Billboard (“Here In My Heart” di Al Martino, ad esempio, o “Mister Sandman” delle Chordettes) erano oggetto di divertito disprezzo da parte di Yoko. Per ciò che riguarda il fresco risuonare del tuono rock’n’roll “non riscontravo una gran simpatia o interesse per il mondo avant-garde nel quale vivevo, tutt’altro. C’era una sorta di orgoglio nel non fare parte della scena rock, perché troppo commerciale”[3].
L’interesse di Yoko per le opinioni degli altri era pari a quello di uno scimpanzé dello zoo per i pensieri dei turisti oltre la sua gabbia. Saltava le lezioni per costruirsi un curriculum personale e segreto in biblioteca, presentava saggi dal titolo “A Grapefruit in the World of Park” (Un Pompelmo nel Mondo di Parco, ndr) e metteva in scena spettacoli artistici apparentemente banali, come “Lighting Piece”, che consisteva nell’accendere un cerino e guardarlo spengersi.
Questo colpì il club bohemienne del college, di cui Yoko divenne presto un membro influente. Si rifaceva agli esistenzialisti parigini, che di lì a poco sarebbero stati ridotti dai registi cinematografici a due stereotipi di beatnik saccenti e borghesi: quelli “caldi” (dissertazioni a mitraglietta e sguardi pseudo-psicotici) e quelli “freddi” (silenziosi, immobili e inaccessibili).
Yoko era più vicina alla seconda specie, si fece crescere i capelli lasciandoli spettinati e sciolti e iniziò a vestirsi come Juliette Greco, snella e spettrale sacerdotessa dell’imperturbabilità, attrice musa degli esistenzialisti francesi e artista musicale. Questo sarebbe rimasto il look di Yoko per i successivi vent’anni.


[1] Yoko Ono, J.Hopkins (Sidgwick & Jackson, 1987)
[2] Edgar Varese, A. Clayson (Sanctuary, 2002)
[3] Record Collector, giugno 1992

1 commento:

  1. se qualche buon'anima ha voglia di commentare lo faccia, questo spazio è fatto apposta!...e poi sono curiosa delle vostre opinioni! La seconda parte del capitolo uscirà giovedì

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