lunedì 17 gennaio 2011

Parte 1 -Prima di John/Capitolo 1: La Discendente


 “Non posso definirmi una rappresentante di nessuna tradizione”
La maggior parte delle famiglie ha il vizio di vantare una qualche parentela con persone almeno vagamente famose, ma Yoko Ono (pur condividendo il proprio cognome con mezza popolazione giapponese) può esibire tra i suoi antenati un bisnonno, Atsushi Saisho,  appartenente alla stirpe dell’omonimo leader religioso  del IX secolo, le cui doti incontrarono il favore dell’imperatore. Nell’ 807, con il denaro proveniente dall’erario reale, Saisho fondò la nuova e controversa setta Buddista “Tendai Lotus”. Dopo la costruzione di un monastero, si dedicò alla politica ecclesiastica fino al giorno della sua morte, avvenuta quindici anni dopo e celebrata con tutte le onorificenze del caso. Tra i titoli conferitigli il più importante era quello di Daishi (“Sommo Maestro”), soprattutto perché Saisho fu il primo monaco in Giappone ad esserne investito.
Da Saisho, o uno dei suoi fratelli, discese una dinastia così potente da aver svolto un ruolo fondamentale nel rovesciamento della dittatura militare feudale degli shogun nel 1867, riportando sul trono l’imperatore. Lo stesso Atsushi Saisho fu un luminare all’interno del Consiglio Imperiale sotto il progressista Meji, primo imperatore ad accogliere gli occidentali in quell’arcipelago al largo della costa orientale del continente asiatico.
Oltre a questo primo passo verso l’occidentalizzazione del Giappone, Meji fu anche l’autore del trasferimento della corte reale da Kyoto, sede della famiglia imperiale per oltre un millennio, a quella che sarebbe diventata la nuova capitale del Giappone: Tokyo.
La vita professionale di Atsushi Saisho, nell’occhio del ciclone politico, fu un successo, ma l’avere come unica discendente una figlia, Tsuruko, invece di un maschio era un’onta in un paese che seguiva strettamente la legge secondo cui i maschi avevano la precedenza sulle femmine in fatto di privilegi ed eredità. Tuttavia Saisho, in pubblico, si dimostrò più affettuoso che poteva nei confronti di Tsuruko e non si oppose alla sua scelta di studiare inglese e musica in una scuola di Tokyo.
Tsuruko non uscì dal college soltanto con un diploma. Inizialmente attratta dalla sua musica, abbracciò anche il Cristianesimo, fede fortemente minoritaria in Giappone. Lo zelo con cui la neofita Tsuruko affrontava la dottrina fu tra le motivazioni che la spinsero a sposare Eijiro Ono, che, in quanto rampollo di una famiglia di guerrieri samurai,  era ciò che George Bernard Shaw avrebbe definito un “nuovo povero”, provenendo da una famiglia un tempo agiata.
Eijiro si dimostrò brillante e molto portato per la maggior parte delle materie scolastiche, guadagnandosi un posto nell’istituto di istruzione superiore di Tokyo, frequentò poi un corso post-laurea oltreoceano, nell’università del Michigan, col quale ottenne un dottorato in economia e matematica nel 1890.
Tornato a casa, Ono intraprese diligentemente il difficile mestiere di dirigente  medio presso la Banca del Giappone, valutando colonne di dati e cifre e pungolando colleghi indolenti e loschi uomini d’affari sulla provenienza di certe percentuali e sul perché alcuni interessi non fossero stati pagati. Felici di aver trovato qualcuno che non si limitasse a guadagnare tempo, i suoi superiori lo spinsero un gradino più su: divenne direttore di filiale, poi entrò a far parte del consiglio d’amministrazione ed infine fu promosso presidente della Banca Industriale Giapponese fino alla pensione e, poi, alla morte, avvenuta nel 1927.
Apparentemente Eisuke, terzogenito di Eijiro, sembrava essere fatto ad immagine e somiglianza del padre. Mentre otteneva riconoscimenti accademici simili a quelli paterni, incoraggiato dalla madre, crebbe con la passione per la musica ecclesiastica occidentale. Gli interminabili ascolti dei gracchianti 78 giri e, più raramente, dei concerti dal vivo si tradussero in tentativi di riprodurre le sacre note sul pianoforte del soggiorno. Mentre il padre prestava amaramente l’orecchio agli sforzi del figlio, Eisuke ascoltava affascinato la moglie russa del fratello maggiore che faceva vibrare lo strumento con le note di Monteverdi, Bach e Handel durante i “pomeriggi musicali”, occasioni frequenti nelle famiglie raffinate prima dell’avvento di quell’indispensabile dispositivo chiamato televisione.
Lusingata dall’interesse sorprendentemente sincero del ragazzo, la cognata insegnò ad Eisuke tutto ciò che sapeva, compiaciuta dalla sua volontà di provare e riprovare, sudando sugli esercizi e comprendendo come la musica fosse una scienza oltre che un’arte.
Anche se non sapeva suonare Mozart bendato, l’abilità sulla tastiera di Eisuke era un passaporto per l’alta società: partecipava come ospite più che gradito ai party di Karuizawa (un paese di montagna a nord di Tokyo, meta di villeggiatura privilegiata da giovani aristocratici, nuovi ricchi e diplomatici stranieri) dove, invece del Te Deum e del Mangnificat, o della musica popolare giapponese, era richiestissimo per canzoni spensierate e romantiche ballate che parlavano del “mio paradiso blu ed Ida, dolce come il sidro”[1].
La maggior parte di queste canzoni venivano dagli Stati Uniti, paese in continua ascesa dopo la Grande Guerra, come il paradiso del radicalismo artistico, ora che l’avanguardia americana si era resa indipendente da quella europea. Gli USA stavano dettando le regole in fatto di musica, e ciò fu evidente il 6 marzo 1913 quando la parola “jazz” uscì dal vocabolario slang grazie all’inserimento in un articolo del San Francisco Bulletin riguardante Al Jolson, autore di “The Spaniard That Brighted My Life”, disco da 1 milione di copie vendute, uscito quella settimana.
Stravinsky e il compositore classico mancato George Gershwin erano piuttosto aperti riguardo la loro conoscenza e passione per il jazz, anche se per l’Ebony Concerto scritto per la band di Woody Herman avremmo dovuto aspettare ancora trent’anni.
Lo stesso dicasi anche per l’immigrazione negli Stati Uniti di Stravinsky, avvenuta grazie all’impiego come assistente all’Università di Harvard, nel 1939, un anno che funse per lui da spartiacque. Così l’Europa perse con l’esilio un’altra delle sue menti più eccelse.
Il suicidio del vecchio continente, sia durante la prima Guerra Mondiale che durante la Rivoluzione russa del 1917, fu uno dei fattori che spinsero Marcel Duchamp a bussare alla porta del collega Man Ray, a New York, con in regalo una sfera di vetro contenente “aria parigina”.
Per ragioni simili, Edgar Varese, in coppia con Stravinsky, in quanto entrambi figure di spicco ed eminenze grigie della musica del XX secolo, lasciò la Francia per New York. Il mattino successivo al suo arrivo, prese un tram per il Greenwich Village, un quartiere della Lower Manhattan che gli avevano assicurato sprizzare di vita bohemienne quanto Montparnasse, dove si incontravano poeti, pittori, musicisti e simili sin dal 1840, epoca in cui Walt Whitman ed un Edgar Allan Poe ormai malato erano stati quasi vicini di casa là.
In quel periodo, quando Duchamp entrava in un caffè, si creava subito un movimento di sedie, uno spostamento di tavolini, nel desiderio di avvicinarsi a lui ed interrogarlo devotamente su vari aspetti dell’arte, accettando con riverenza ogni parola che usciva dalle sue labbra. L’artista moderno, secondo lui, non avrebbe più dovuto produrre una bella immagine su un soggetto specifico. Per quello c’era la fotografia. Un dipinto o una scultura non avevano più bisogno di rappresentare qualcosa di riconoscibile. Rappresentando soltanto sé stessi, la loro unica ragione d’essere era toccare lo spettatore in qualche maniera, anche per motivi impossibili da definire.
Tali teorie non erano esclusivamente attribuibili a Duchamp, infatti, a seguito della Grande Guerra, il Greenwich Village aveva iniziato ad ospitare le cellule di un movimento artistico sempre più impetuoso e coeso di cui egli era il principale esponente. Forse il punto era quasi quello, ma il senso di solidarietà più formale  era stato fissato da una setta che rinnegava sia la forma che la solidarietà. Il conflitto sul Dadaismo (alias “l’anti-arte”, “l’avanguardia dell’avanguardia”, “l’arte come vita”) è tutt’ora aperto, ma le premesse fondamentali erano comunque che tutta l’arte è melma e che chiunque può creare arte, non importa quanto assurdo, triviale o pretenzioso sia il risultato, sempre che ce ne debba essere uno.
Secondo molti, il Dadaismo nacque a Zurigo durante la guerra, per poi diffondersi a Berlino, Hannover (con un certo Kurt Schwitters come unico esponente), Parigi, New York e altrove. Ebbe un maggiore impatto sulla letteratura e sulle arti visive, come dimostrato dalle variegate risonanze quali le “poesie sonore” non-lessicali di Schwitters, l’essenza filosofica non-impegnativa di Gurdjieff e la preoccupazione del “nulla importa”, che è la concezione comunemente nota dell’esistenzialismo. Ci sono degli elementi dadaisti anche nel moderno Stuckismo (o “rimodernismo”) che “abbraccia tutto ciò che denuncia” come ad esempio la pecora morta (messa in mostra da Damien Hirst) o il letto sfatto (Tracey Emin) in lizza per il premio Turner a fine anni ’90.
Un punto ovvio nel manifesto Stuckista è che “l’opera di Duchamp era una protesta contro la comunità artistica non-pensante e stantia della sua epoca” [2].
Con una innata consapevolezza di ciò, l’American Society of Independent Arts negò a Duchamp l’esposizione dell’opera Fountain (un urinale con su scritto “R. Mutt 1917”) nella sua prima mostra. Questo gesto di sfida segnò la nascita del Dadaismo newyorkese come pura provocazione.
Nel maggio 1917 Duchamp giustificò Fountain come arte “ready made” (“una polemica di materialismo”) nel secondo numero di The Blind Man, periodico dadaista auto-finanziato. Il suo editoriale dette vita anche a R(ichard) Mutt, con una biografia in cui si specificava anche il suo numero di telefono.
Il Dadaismo fu divertente finché durò. Inoltre, si era fatto strada fin nei pettegolezzi da soirée di Karuizawa, in modo misterioso quanto quello per cui un particolare marchio di calzature era arrivato a St. Kilda, l’arcipelago più estremo delle Ebridi,  nemmeno un anno dopo il suo ingresso nella Londra chic del diciannovesimo secolo.
Eisuke Ono potrà aver ridacchiato per lo humour sardonico e pungente del Dadaismo, molto simile al suo, ma non si sforzò né di capire né di simpatizzare con i suoi principi o con quelli simili del Futurismo, del Surrealismo e di altri modernismi che, quando venivano menzionati nelle pagine dei quotidiani, causavano stupore e frequente disprezzo nei frequentatori di salotti a Karuizawa. Per Eisuke, dunque, le sfide intellettuali e sonore del sistema dodecafonico di Schoemberg (ormai pienamente mobilitato), per fare un esempio, erano impenetrabili quanto un cristallo. Lo stesso dicasi per la testardaggine cromatica di Carl Ruggles o per Henry Cowell, pioniere dell’indeterminatezza formale e dei pianoforti “trattati” con ronzii e rumori sordi di lime per unghie, graffette, cucchiaini e altri oggetti di uso comune, tutti controbilanciati dai passi del pubblico che chiedeva di ripetere le performance, senza essere esaudito.
Niente di tutto ciò combaciava con l’immagine di artista serio che Ono aveva di sé, anche se proponeva con garbo ciò che aveva ironicamente ammucchiato sotto l’etichetta “jazz” per smoking incravattati, scollature imperlate e volti abbronzati sulle piste da sci di Karuizawa.
Ventunenne, dal parlare pacato e di una bellezza timorosa, Isoko ascoltava queste interpretazioni con un sorriso incerto, ma rimase rapita quando Eisuke, inserendo il pilota automatico alle dita, scavava nei pezzi che tutti conoscevano dai classici. Dal semplice interesse, Ono si stava impossessando, gradualmente e inconsapevolmente, di Isoko, che si ritrovò a sussultare di piacere quando un sorriso che svelava una dentatura perfetta veniva indirizzato a lei.
Da parte sua Eisuke si domandava se, alla soglia dei trent’anni, non fosse arrivato il momento di trovarsi una moglie. In fondo non era poi così brutto, no? Sicuramente giravano delle voci sul suo conto circa flirt e storielle con alcune delle signorine più giulive di Karuizawa. In confronto a loro, decise, Isoko era una penna stilografica in mezzo a dei mozziconi di matita, ed iniziò un timido corteggiamento fatto di finta indifferenza ed indagini contorte.
Dopo l’innamoramento tra Isoko ed Eisuke, i genitori buddisti di lei rimasero sconvolti dall’annuncio del matrimonio, preoccupati per la fede cristiana di lui e, soprattutto, per la sua ostinazione a guadagnarsi da vivere come pianista, una scelta di carriera poco saggia a meno che non si sia nati nel mondo dello spettacolo. A dire il vero, soltanto l’idea che un giovanotto di buona famiglia come Eisuke si arrischiasse così nel mondo del lavoro, per molti giapponesi della media-borghesia era deplorevole quanto quella di una figlia dello stesso status sociale che si dedicava alla prostituzione.
I Signori Yasuda portarono il problema all’attenzione della matriarca della famiglia, la nonna materna di Yoko, la cui salute andava peggiorando da quando il marito Zenjiro era stato lasciato ad esalare il suo ultimo respiro con la faccia a terra e la bocca aperta in una strada di Tokyo. Etichettato come conservatore sin da giovanissimo, era stato aggredito da un gruppo omicida di estrema sinistra (forse semplici agenti provocatori) apparentemente infuriatisi per il suo rifiuto silenzioso di dare anche solo una monetina per la loro causa.
Il suo funerale fu organizzato in pompa magna, poiché Zenjiro Yasuda era stato al timone di una barca solida ed antica, in quanto fondatore della Yasuda Bank, specializzata in investimenti ed assicurazione di immobili, che aveva allungato i suoi tentacoli in Europa e nel Nord America. Era quindi una figura di spicco in uno dei consorzi di imprese più fiorenti e rispettati del Giappone. In un ambiente del genere il nepotismo era scontato. Yasuda aveva istruito come suo successore il genero Iomi Teitaro, padre di Isoko, e potrebbe aver mosso i fili per  metterlo a capo, nel 1915, dell’equivalente giapponese di una contea, a patto che Iomi cambiasse il suo nome all’anagrafe in Zebsaburo Yasuda.
Isoko era la più piccola degli otto figli (quattro maschi e quattro femmine) di Iomi/Zebsaburo e Teruko, l’adorata figlia maggiore di Zenjiro. La famiglia viveva ad un passo dal palazzo reale, sulla collina più alta di Tokyo e possedeva una macchina molto prima di chiunque altro in città. Dalle loro finestre Isoko e i suoi fratelli avevano notato, senza mai parlarci, bambini e bambine poveri e scalzi che giocavano nei vicoli di una città che cresceva disordinatamente con il sovrapporsi di paesi in cui i cavalli sarebbero rimasti più delle macchine fino ad anni ’20 inoltrati. Isoko ed i suoi fratelli ebbero quindi un’infanzia protetta e fondata sulle buone maniere, anche grazie ad incentivi generosi (a volte le bambine ricevevano diamanti) per comportarsi bene in quelle che, inutile a dirsi, erano le scuole più esclusive e costose di Tokyo. Conoscevano pochi bambini con uno stile di vita diverso dal loro.
Se Eisuke Ono proveniva da una famiglia benestante e dell’alta società come la loro, perché non capiva che una carriera come artista era instabile, un ripiego professionale? Durò poco. D’accordo con i suoi genitori, i signori Yasuda convinsero Eisuke a ragionre e lui, seppur con qualche protesta a mezza voce, accettò di mettere da parte l’idea di guadagnarsi da vivere come musicista, obbedendo alla regola non scritta della borghesia che gli imponeva di seguire le orme del padre e del suocero. Così Eisuke Ono sposò Isoko Yasuda e, ritrovandosi ad odiare il proprio fastidioso ed innato talento per la finanza, accettò a malincuore di lavorare alla Yokohama Specie Bank. Uno dei lati positivi e più materiali della faccenda fu che si sarebbe trasferito da una comoda abitazione all’enorme tenuta della nonna, recentemente defunta, di sua moglie.
Qui, alle 8 e 30 del 18 febbraio 1933, l’anno dell’Uccello, in un mattino nevoso, la prima figlia di Eisuke e Isoko venne al mondo. Un primogenito maschio sarebbe stato più gradito, ma erano entrambi soddisfatti, poiché il travaglio di Isoko era proceduto senza problemi e la neonata era robusta. La chiamarono Yoko, “figlia dell’oceano”, poiché era nata sotto il segno dei Pesci. Per i genitori giapponesi è di grande importanza anche il numero della nascita, dato dalla somma delle cifre della data di nascita del bambino; per Yoko era il 9 (1+8+2+1+9+3+3 =27 e 2+7=9), numero che rappresenta la trinità delle trinità per i cristiani per cui esistono 9 regni dei cieli, 9 ordini degli angeli e 9 regioni dell’inferno.
Eisuke, per ottenere la mano di Isoko, aveva ceduto su molti punti ma non aveva mai accettato di abbracciare il Buddismo. Nonostante ciò Zebsaburo e Teruko avevano trovato in lui un genero-modello, anche se molto riservato, che si dedicava con zelo al lavoro tanto da accettare con stoicismo l’impegno di lasciare il Giappone 15 giorni prima della nascita di Yoko. Era stato trasferito dalla banca ad una filiale di San Francisco con la richiesta di restarvi fino a nuovo ordine.
Eisuke sarebbe stato costantemente all’estero per i primi 3 anni di vita di sua figlia. Tuttavia, attraverso l’enigmatico mistero della sua foto appesa al muro, continuò a vegliare sulla condotta della famiglia anche da lontano, specialmente per ciò che riguardava il valore del denaro e l’insegnamento secondo cui il duro lavoro e la tenacia sono il segreto del successo.

©2011 Gelsomina Sampaolo All Translation Rights Reserved 


[1] “Ida Sweet as Apple Cider”, famosa canzone di Frank Sinatra (n.d.t.)
[2] Stuckist pamphlet, 11 Aprile 2000 (Hangman Bureau of Enquiry). Vedi anche www.stuckism.com.

2 commenti:

  1. Forse un po' lunghetto...quasi quasi farei due pubblicazioni a settimana, per leggere più in tranquillità, che ne dite?

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  2. Beh, potresti anche dividerlo, ma non è poi così lungo.
    Brava Gelso, si legge con estrema facilità, sembra una fiaba giapponese! :)

    -acca-

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