giovedì 27 gennaio 2011

Capitolo 2- La bambina (seconda parte)


La tensione, che avrebbe raggiunto il suo climax con l’assalto giapponese a Pearl Harbour, cresceva e tutti gli indizi per gli Ono rimandavano all’ultimo posto in cui ci si sarebbe aspettati di trovarli. Isoko ed i bambini si imbarcarono di nuovo per San Francisco, da cui, stipati i bagagli, si sedettero in un vagone diretto a New York, dove Eisuke si era rifugiato da settimane nell’agenzia di  Manhattan della Yokohama Specie, così sommerso dal lavoro che i membri della sua famiglia potevano parlarci solo su appuntamento.
Stanco ed arrabbiato per tutto il tempo passato alla Grand Central Station, ciò che infastidiva Eisuke era una vena di insicurezza riguardo a cosa sarebbe successo se (e non quando) il Giappone, già ufficiosamente coinvolto in un conflitto antimperialista con la Cina, si fosse unito alle potenze dell’Asse contro gli Alleati. L’unità della famiglia contava più della possibilità dell’internamento allo scoppio delle ostilità, ma nella bonaccia intercorsa tra il primo giorno alla nuova banca nel 1940 e il blitzkrieg di Pearl Harbour, era diventato sempre più sentimentale nei confronti di una Tokyo che ormai vedeva avvolta da un’aura rosea. Nella pronuncia di Yoko, intanto, faceva capolino un accento nippo-americano, promosso sia dalla scuola americana che (anche se in misura minore) dagli Ono che, contagiati dalla febbre della mobilitazione, fuggirono indisturbati il giorno di capodanno.
Tecnicamente erano in cinque, poiché Isoko era di nuovo incinta ed avrebbe dato alla luce il suo ultimogenito Setsuko appena prima di Natale. Come era stato per Yoko, anche nei primi anni di Setsuko la figura paterna fu piuttosto evanescente. Il Dipartimento della Difesa, che si occupava dello stallo nel teatro delle operazioni nel Pacifico, convocò Eisuke Ono. Una forza infinitesimale nell’insieme dello sforzo bellico, Eisuke aveva la responsabilità di far andare avanti la Specie Bank di Hanoi il più a lungo possibile, almeno finché gli Alleati potevano essere tenuti a bada dal potere di Hiroito.
Proprio il suo impero pagò le conseguenze di una guerra voluta da lui: ogni città si trasformò in un nugolo di code per gli alimenti e i vestiti, così scarsi da poterli acquistare solo mettendo da parte per settimane i buoni del razionamento o rivolgendosi al mercato nero. Nella loro campana di vetro fatta di privilegi, gli Ono non erano costretti a grandi  sacrifici o a ricorrere a mezzi illeciti  per l’acquisto degli alimenti, ma furono spinti a donare pegni preziosi alla causa della guerra ed obbligati a perdere i membri della servitù a vantaggio di ospedali, fabbriche di munizioni e forze armate.
Una costante, rimasta intatta nei disordini, era l’istruzione di Yoko. Ora frequentava la Keimei Gakuen, una nuova scuola cristiana di Tokyo, dove le fu insegnata la Bibbia da un insieme di religiosi e laici che dovevano parlare inglese a lezione. Tuttavia, mentre la rete degli Alleati si chiudeva sul Giappone, fu decretato che tutti i bambini sopra i 12 anni avrebbero dovuto lavorare nelle file di assemblaggio delle munizioni, ma Isoko scoprì quanto fosse facile per una donna come lei aggirare tali ordini e convinse il preside della Keimei Gakuen a sottrarre due anni dall’età di Yoko sul registro.
Alla fine, comunque, questa bugia non fu poi tanto importante, poiché gli Ono sarebbero presto fuggiti da Tokyo dopo che le campane d’allarme e le sirene avevano iniziato il loro lamento funebre durante la mutilazione della capitale più grande del mondo per mano dei bombardieri US B-29 decollati dalle piste delle Hawaii. Case e teatri, negozi e cinema, edifici pubblici ed interi palazzi capitolavano in una nebbia fumosa o venivano spazzati via da attacchi mirati, notte dopo notte, nei bombardamenti aerei che portavano con sé morte e distruzione, ma che a Yoko ricordavano i passi degli orchi cattivi nelle favole.
Il palazzo dove viveva Akihito non esisteva più. Alberi secolari, nati da giovani arbusti nella calma della periferia, venivano abbattuti come ramoscelli e la superficie fangosa dei canali che intersecavano i loro corsi rifletteva la luce abbagliante delle fiamme, che sgorgavano come fiumi impetuosi lungo le strade, travolgendo ogni ostacolo sul loro cammino. Il catrame venne ridotto ad un ribollio di pece, finché le arterie acquatiche di Tokyo furono seppellite.
Durante la tempesta Isoko e la sua prole si rannicchiavano nel rifugio ricavato nel seminterrato; quando le ombre nemiche sparivano dal cielo, la calma permetteva alla famiglia ed alle altre talpe umane di riemergere trovando credenze ridotte in cocci, materassi bruciati al posto dei letti e schegge dei propri mobili sparse per la strada.
Chi poteva permetterselo fuggiva. Akihito era già partito alla volta di un cottage disperso nei boschi, con l’unica compagnia di un maggiordomo sessantenne e, nel marzo del 1945, anche Isoko prese i suoi bambini e l’ultimo domestico rimasto e si diresse in una casa nelle campagne ai piedi di Karuizawa, un luogo pieno di romantici ricordi.
Dalla radio Isoko seppe che Hanoi era stata presa dagli Alleati, dalla buca delle lettere nessuna notizia su dove si trovasse Eisuke o se addirittura fosse ancora in vita, ma si oppose al quel sentimento d’incertezza  che le aggrovigliava lo stomaco e si adattò meglio che poteva ad una povertà mai sperimentata, scoprendo in sé stessa risorse che non sapeva di avere.
Contrattava con i rozzi paesani vendite strazianti di tesori personali in cambio di cibo; fu costretta a raccontare storie di sfortuna nera a sconosciuti che li guardavano come se avessero avuto soldi a palate; faceva indossare ai figli abiti da contadini fatti col tessuto delle gualdrappe dei cavalli e li mandò alla scuola pubblica del paese dove venivano presi in giro da tutti per il loro comportamento altezzoso.
La situazione era così pesante per Keisuke che sviluppò una vera e propria fobia per la scuola, ma sua sorella maggiore, dopo aver tentato di fare da paciere, iniziò a mostrare i pugni, sfoderò uno sguardo feroce e sperò per il meglio, piuttosto che inghiottire gli insulti o fare spallucce di fronte ai bulli. Inoltre, sotto il regime prosaico e quasi di terrore creatosi in classe, Yoko fece enormi progressi. Oltre a mostrare un’inclinazione per l’arte e la scrittura creativa, la sua memoria fotografica insieme ad una metodica tenacia favorirono la già sviluppata e talvolta enciclopedica percezione delle persone e dei luoghi, delle interazioni e dei risultati. Questo aprì la strada ad altre attività extracurricolari che, all’epoca in gran segreto, le facevano sognare un futuro da compositrice, scrittrice o artista visiva. Era possibile combinare le tre cose? Per ore ed ore si arrovellava su frammenti di versi, prosa, melodie ed illustrazioni con un fine sconosciuto, a parte quello di articolare l’intimo spazio di un cosmo privato che non si aspettava che qualcun’altro capisse, men che meno i suoi insegnanti.
Ma, come ogni altra bambina alle soglie dell’adolescenza, Yoko seguiva con sua madre attraverso la radio le avvilenti notizie dell’avanzata delle truppe statunitensi, sempre più vicine al Giappone, e la successiva “luce di mille soli” che trasformò in terra bruciata Hiroshima e Nagasaki. Questa fu l’ultima goccia che portò alla resa dell’agosto 1945 ed al successivo non-riconoscimento della divinità da sempre onorata dell’imperatore. Fu concesso il diritto di voto alle donne e la maggior parte delle campagne furono date ai coloni (come parte della nuova costituzione occidentale imposta nel 1947). Il paese dovette abituarsi all’onnipresenza, per i successivi sette anni, di  migliaia di distaccamenti Alleati, i cui ufficiali iniziarono a requisire tutti gli hotel e le abitazioni in cui i rubinetti funzionavano ancora.
Quando gli Ono, rinfrescati da mesi di aria di montagna, fecero il loro ritorno nel folle regno di code a cui era ormai ridotta Tokyo, affittarono le loro proprietà ai soldati americani di stanza, che, quando erano in borghese, scorrazzavano per la città in abiti doppio petto, con spallini, colletti a punta, scarpe bicolore e cravatte dipinte a mano raffiguranti indiani d’america o giocatori di baseball. Le selvagge visioni sartoriali, insieme al fumo dei grossi sigari, attiravano sguardi stupiti, ma più spesso pieni d’invidia. Così come accadeva nella Berlino sconfitta e nella Londra vittoriosa, il passaggio di americani a frotte incarnava il nuovo-vecchio paese delle meraviglie e delle opportunità: la Coca Cola, il selvaggio West e gli Ink Spots, il cui canticchiare polifonico avrebbe conquistato anche il Kokusai Theatre di Tokyo nel 1948. Ormai i nuovi coffee-bar erano già fitti al centro della città e pronti a penetrare anche in molte delle zone circostanti con i loro juke-box che urlavano le canzoni degli Ink Spots e di altre pop star americane.
Pur avendo torturato i suoi capelli con una permanente occidentale, a Yoko Ono non era concesso frequentare tali covi d’immoralità e per lei, anche se nei limiti della sconfitta e dell’occupazione, le vecchie regole erano già state ristabilite. Era tornata a scuola con Akihito alla Gakushiun, ma  stavolta Yoko preferì la compagnia di un altro principino, Yoshi, che condivideva con lei l’interesse per la poesia, oltre ad essere la stella del corso di teatro.
All’inizio del 1946 l’ improvviso ritorno del padre da un campo di prigionia cinese rimosse in un batter d’occhio il principale ostacolo alla stabilità familiare.
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