lunedì 24 gennaio 2011

Capitolo 2- La bambina (prima parte)


“Non pensavo“Oh, sono figlia unica” Perché quella era l’unica vita che conoscevo”

Ci piacerebbe avere l’impossibile. Il video di una qualsiasi scena svoltasi all’interno delle lignee stanze della residenza degli Ono, ad esempio, o provare con i nostri organi sensoriali come una particolare occhiata, parola o gesto di Isoko abbia influito sulla piccola Yoko. In ogni famiglia c’è sempre un territorio sconosciuto e incomprensibile agli elementi esterni, ma tutti i bambini sono innamorati dei propri genitori sin dalla nascita.
Non c’è Dio all’infuori di Mamma e Papà è il profeta di Mamma.
Tuttavia, nel caso di Yoko, mentre il padre era una figura lontana nella sua infanzia, la coscienziosa ma non amorevole madre rarissimamente dimostrava una qualsiasi emozione sincera o l’affetto in modo fisico a quella figlia che vedeva ma non sentiva. Inoltre, per tutte le faccende quali cambio di pannolini, pappe ed altri aspetti terreni dell’educazione dei suoi figli, Isoko si affidava completamente agli oltre trenta tuttofare, che scimmiottavano i modi dei camerieri di palazzo inchinandosi ossequiosamente, ad esempio, ogni volta che erano in presenza della padrona.
Questo però non significa che Isoko non si occupasse di Yoko, tutt’altro. In realtà, con uno zelo per la pulizia che altri genitori avrebbero ritenuto eccessivo, dette ordine alle tate di tenere sempre pronti alcol e batuffoli di cotone per disinfettare qualsiasi cosa potesse finire tra le mani di Yoko nei luoghi pubblici infestati dagli altri monelli.
Come conseguenza, la stessa Yoko sviluppò una fissazione per l’igiene che sfiorava l’ossessione compulsiva: si lavava le mani finché non erano screpolate e doloranti e lasciava cadere a terra con un tonfo qualsiasi oggetto che conservasse il calore di chi l’aveva tenuto in mano precedentemente.
Inoltre, quando richiesto dall’occasione mondana, accettava senza ribellarsi di farsi lavare il viso con una spazzola e pettinare la lunga chioma fino a far brillare la cute. Poi doveva rispondere in modo educato e scioccamente affabile ogni volta che qualcuno le si rivolgeva con un banale luogo comune. Apparentemente Isoko teneva di più all’approvazione dei suoi pari che alla felicità dei figli e lo dimostrava ostentando il proprio benessere economico e partecipando ad occasioni mondane, come cene impomatate o quegli spettacoli musicali sussurrati dove lo scopo principale della serata era vedere ed essere visti durante l’intervallo.
“Dentro di me sentivo una certa repulsione per l’esibizionismo di mia madre, ma l’ho superata crescendo”[1], fu questa la risposta di Yoko ad un regime che la forzava a tenere a freno le proprie emozioni e le vietava di provare astio o rabbia nei confronti dei genitori, anche quando questi sentimenti erano più che giustificati.
D’altra parte l’essere servita e riverita insieme all’essere lasciata sola con le sue cose per la maggior parte del tempo, rese Yoko una bambina piena di spirito d’iniziativa e perfettamente in grado di badare a sé stessa, tutte caratteristiche interpretate come “testardaggine” da una madre che, convinta di essere padrona della vita della figlia, raramente si fermava a riflettere sul fatto che Yoko potesse avere delle qualità, figuriamoci poi se queste qualità erano diverse dalle sue.
L’ isolamento di Yoko cominciò a manifestarsi nelle foto di famiglia senza sorrisi o nel desiderio di voltare le spalle alla vita nella bambagia per avventurarsi in quelle zone di Tokyo dove vivevano bambini di strada magri e feroci come gatti randagi. All’iperprotetta Yoko era stato insegnato a disprezzare e allo stesso tempo temere quei bambini che ululavano e si azzuffavano con i toni più volgari della città, intenti a schivare il traffico e i carretti di frutta e verdura che affollavano i marciapiedi, ruota contro ruota, sotto quella parte di cielo che ancora era visibile.
In generale, però, Yoko aveva poco a che fare col mondo reale, preoccupato per lo shock causato dal crollo di Wall Street nel 1929, appena dopo la fine degli investimenti statunitensi oltreoceano. Era l’inizio della Grande Depressione: il collasso globale di ogni ordine e grado di impresa con masse di lavoratori improvvisamente disoccupati.
Nonostante tutto, il Giappone sarebbe uscito dagli anni ’30 meglio di molti altri paesi, grazie al rapido sviluppo dell’industria sin dalla prima guerra mondiale. Mentre un secolo prima era stato il regno delle ricche coltivazioni, la terra del Sol Levante stava ora emergendo come una delle principali nazioni industrializzate del pianeta. I confini delle città si erano allargati, inghiottendo le comunità che trovavano sul loro cammino, mentre le strade, i fiumi e le ferrovie si aprivano a raggiera in ogni direzione. Una miriade di prodotti (dai rocchetti di filo alle pesantissime caldaie delle navi a vapore) venivano smistati quotidianamente nelle sovrappopolate aree urbane, piene di magazzini cavernosi ammassati a casaccio. Negli anni precedenti erano state coniate espressioni come “salute ambientale” e già le gigantesche ciminiere degli altiforni e delle fabbriche vomitavano scorie chimiche nei cieli del Giappone ed incrostavano gli angusti alloggi degli operai con una fuliggine indelebile quanto la “macchia dannata” di Lady Macbeth.
Nessuna depressione ciclica, economica o meno, avrebbe potuto turbare la piccola Yoko Ono, quando, a tre anni, in compagnia di sua madre, cinguettava sulla prua della nave diretta a San Francisco, dove avrebbe incontrato suo padre per la prima volta.
Il viaggio non fu privo di incidenti, Yoko infatti fu rimproverata per essersi avventurata nelle cabine di classe economica della nave: “Ricordo che stavo giocando a nascondino, scendevo giù, giù, sempre più giù e, all’improvviso, mi resi conto che c’era scritto “Terzo ordine”. Lì non si poteva andare”[2]. Rimase con gli occhi sgranati sul ponte della nave, persa nelle possibilità che le offrivano le strade costiere californiane tempestate di palme e il tappeto verde dei parchi litoranei a ridosso della curva dell’Oceano Pacifico, mentre l’imbarcazione guadagnava l’ingresso del fiume, arrancando sotto il Golden Gate Bridge. Gettò l’ancora al molo dove Eisuke salutò e si incamminò verso la moglie e la figlia che non aveva mai visto. Obbediente, Yoko lasciò il fianco di Isoko e corse per quei pochi metri che la separavano dalle braccia tese del padre. Subito si sentì sollevare da terra da “quest’uomo statuario, molto alto”, che la baciava e l’abbracciava.
Tra gli altri ricordi che Yoko ha di Eisuke, c’è quello di lui che le misura la distanza tra la punta delle dita e il pollice, concludendo che non è abbastanza per diventare una pianista affermata. Tuttavia, Eisuke assunse un insegnante di piano e fu felice di sapere che valeva la pena spendere i suoi soldi, poiché Yoko era sia ansiosa di imparare, sia abbastanza autosufficiente da distinguere tra la musica e la fatica dell’esercizio quotidiano. Presto fu in grado di passare al livello successivo, eseguendo dei pezzi per gli ospiti sia nella casa in affitto di San Francisco che, nemmeno un anno dopo, in quella di Tokyo.
Eisuke fu però maggiormente colpito dalla voce di Yoko, quando narrava o cantava i miti folcloristici giapponesi e le canzoni popolari che aveva imparato dalla servitù, provocando l’indignazione di sua madre, che sperava che Yoko assimilasse l’inglese, insieme al tip tap, a Shakespeare e a vari altri aspetti della cultura occidentale dopo l’ingresso nella crème de la crème della Gakushuin (o Scuola dei Pari), frequentata anche da Akihito, il Principe Ereditario.
Anche Yoko nutriva queste stesse speranze, perché era e sarebbe sempre stata ansiosa di ottenere l’approvazione dei suoi genitori, anche quando era evidente che stava scappando dalle loro grinfie. Si sforzò quindi di nascondere la gelosia quando, nel dicembre 1937, le  selettive e tanto sudate attenzioni di Isoko si spostarono su qualcun altro, il fratellino Keisuke, così chiamato in onore del padre di Akihito, l’Imperatore Hirohito.
Nel frattempo, il coinvolgimento del Giappone nella vicina guerra incombeva.
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[1] John Ono Lennon, R. Coleman (Sidgewick & Jackson, 1984)
[2]  A Paul Trynka, conversazione privata

1 commento:

  1. Questa volta mi sono contenuta sulla lunghezza...la seconda parte del capitolo on-line giovedì!

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