venerdì 18 febbraio 2011

Capitolo 5 - L'abitante del Village (seconda parte)


Consapevole ancora una volta del rischio che stava correndo, Yoko Ono, scalza, camminò sulle assi del palco, al centro dell’inquietante attenzione di quella che sembrava la gigantografia di un pubblico silenzioso e immobile. Aveva “rabbia e turbolenza nel cuore”[1] ed un paio di enormi forbici con le quali dare inizio al “Cut Piece”, fondamentalmente l’invito a coloro che stavano seduti a salire sul palco, tagliare un pezzo del suo vestito e passare le forbici alla persona dietro di loro in quella che, in teoria, avrebbe dovuto essere una coda ordinata. Tutto qui. Non era esattamente come doversi unire ai ritornelli di “Quel mazzolin di fiori” su richiesta di un animatore urlante, ma furono in molti a dimostrare una qualche reticenza nello spogliare Yoko finché, rimasta in mutande, dovette coprirsi con le mani il decolleté.
“Fu un’esperienza spaventosa” ricorda “e un po’ imbarazzante. Fu qualcosa per cui io insistetti, secondo la tradizione zen del fare ciò che ti imbarazza e vedere come ne esci e come riesci a gestirlo”.
Di per sé il “Cut Piece” era meno divertente di come lo percepì il pubblico. Cos’era? Mi sono divertito? Devo applaudire o fischiare? Cosa fanno gli altri? Se sui giornali non ci fu che qualche vago commento, il passaparola garantì almeno una certa riuscita positiva per i futuri eventi organizzati da Yoko in luoghi meno prestigiosi. Attirò anche l’interesse di agenti come Norman Seaman, il cui nipote Fred sarebbe stato assunto da Yoko in un futuro all’epoca inimmaginabile.
“'Per l’arte farei quasi tutto'. Ecco come mi sentivo in quel periodo”[2]. Camminando su un’altra fune senza rete di sicurezza, Yoko trovò anche un piccolo spazio agli estremi del jazz avant-garde, attraverso gli esercizi vocali che dovevano molto al libero mormorio e agli strani raggruppamenti tonali di Schoemberg e Penderecki (nel cui lavoro più noto, Devils Of Loudon, c’è Satana che sghignazza dalle viscere di una suora) oltre che alla seitoha (musica classica giapponese).
Ad un livello di forza delle vibrazioni sonore, parte delle sue opere somigliava molto ad alcuni pezzi popolari classici. Ai Classical Brit Awards di ITV, trasmessi il 1 giugno 2003, l’eccezionale interpretazione dell’aria “Anch’il mar par che sommerga” di Vivaldi data dal soprano trentasettenne Cecilia Bartoli avrebbe potuto essere presa, con la macchina del tempo, da uno dei recital di metà anni ‘60 di Yoko, in compagnia di ottimi jazzisti, come Ornette Coleman. Yoko usava la sua voce come primo corno, complementare allo spuntare pericoloso qua e là di urletti del sassofono, gemiti, vibranti belati e fitti dialoghi in giapponese.
La sua flessibilità vocale era anche simile a quella di Subbulaksmi, una diva indiana spesso sui palchi occidentali, e, più ancora, a quella di Hagiwari, la cantante cieca virtuosista del koto, insignita del Juyo-Mukei-Bunkazai, una delle più alte onorificenze culturali concesse dal governo giapponese.
Poiché nessuno aveva ancora sentito né Subbulaksmi, né Hagiwari, il culto di Yoko aumentava nel Greenwich Village, con agli annessi e connessi di studenti curiosi e bohémien del fine settimana con le fronti aggrottate tra un centro d’arte e una sala per recital, incerti su quale fosse la fine delle prove e l’inizio della prima canzone. Sfidavano le definizioni succinte, ma venivano pian piano accettati in modo consapevole e consenziente (anche se qualche ascoltatore dovette bloccare un pensiero impuro alla maniera del finale de “I vestiti nuovi dell'imperatore” con la tacita domanda: “Come fa questa roba a piacere a qualcuno?”). Dopo gli applausi educati alla fine del baccano, le luci della notte davano l’opportunità, dopotutto, di chiacchierare su quanto “interessante” fosse tutto ciò, questa “musica spontanea”, questi “dipinti sonori” che erano una strada per fare i nomi di Cage, Varese e Berio ed assumere un atteggiamento di compassionevole superiorità sia verso coloro che “non capivano” sia nei confronti di quanti l’avevano apprezzato per le ragioni “sbagliate”.
Il Jazz, come lo definì scherzando Frank Zappa, era “la musica dei disoccupati” e, anche se Yoko era perfetta per soddisfare le richieste di Ornette Coleman ed era ormai una celebrità come artista di performance, i guadagni ricavati da queste serate non risolvevano certo il problema quotidiano di dover provvedere al marito e alla figlia. Lentamente lei e Tony si ritrovarono a dover combattere con problemi di liquidi. Niente di troppo grave, solo una costante corrosione patrimoniale, fatta di alti e bassi. Yoko addirittura mise da parte l’orgoglio e chiese di poter tornare a lavorare al Paradox e, nonostante dovesse ancora pagare l’affitto negli appartamenti precedenti, la famiglia continuava a trasferirsi in case sempre più economiche in poche ore si riducevano come se qualcuno avesse tirato una granata in ogni stanza. Avvolto in una spirale ferrea di uscite di sicurezza, l’edificio sembrava tremare ogni volta che i treni della New York Transit Authority  passavano rumorosamente.
Infine, nella cupa dimora che trattavano come quello che nei Favolosi anni ’60 sarebbe stato definito una zona “cuscinetto”, i vecchi problemi esplosero in notti insonni di discorsi ripetitivi e ansiosi. Una mattina Yoko e Kyoko si trasferirono allo studentato della Judson Memorial Church, sistemazione provvisoria per studenti e artisti di ogni genere e nazionalità. Affitto ridotto, servizi comuni e il Village a portata di mano, in più era possibile fare domanda per restare anche oltre il periodo prestabilito di un anno.
Dopo essersi sistemata, Yoko concentrò le sue varie frustrazioni e la sua fastidiosa imprevedibilità nella ricerca di uno stratagemma che le evitasse di diventare un venerabile “personaggio” del Greenwich Village come Moondog[3] o che almeno le risparmiasse una sopravvivenza fatta di costanti calcoli mentali per poi mangiarsi tutto lo stipendio (che, tra l’altro, era inferiore a quello di ogni altro operaio medio). Una riunione di brainstorming con Tony aveva dato vita al “Bagism”[4], in cui una coppia doveva chiudersi in un grosso sacco nero, svestirsi, rivestirsi l’un l’altro e riemergere. In alternativa potevano restare immobili o avvicinarsi a quelli che stavano fuori, all’oscuro di tutto.
Come per il “Cut Piece”, anche il “Bagism” concesse a Yoko un breve periodo di fama fuori dal Greenwich Village, ma ottenne poco a livello economico. Sembrava così sconfitta che preferiva guardare alle vittorie future ma, in un certo senso, il peggio doveva ancora venire. Comunque da questo momento di risacca la maestosa marea iniziò lentamente a risalire.
Il “Bagism” aveva provveduto a ristabilire un po’ di equilibrio e Tony investì abilmente in duecento azioni artistiche di Yoko. Anche se l’equazione non sarebbe stata la stessa di Wagner e il Re Ludovico o Tchaikovsky e Nadezhda von Meck, Cox scoprì di avere un certo talento per convincere patroni disponibili del genio di Yoko, prima di offrire loro, con cauta confidenza, l’opportunità di fare fortuna alle radici di un’industria in crescita.
La vendita di trenta di queste azioni, del valore di varie migliaia di dollari, permise ai Cox di aprire la loro personale galleria, Is-Real, in alcuni locali commerciali vuoti nel Greenwich Village, ed iniziare i provini e le riprese di un film fatto di primi piani di una miriade di fondoschiena nudi, un paio per ogni giorno dell’anno. Non era ancora finito, ma in fase di pre-produzione, sulla soglia di Is-Real svolazzò un invito per Yoko ad un simposio sulla “Decostruzione nell’arte” a Londra, a partire dal 28 settembre 1966.



[1] The Guardian, 15 settembre 2003
[2] A Paul Trynka
[3] Il quale stava per stabilirsi in Germania, essendo ormai un compositore di fama internazionale
[4] Concepito inizialmente come “Stone piece”

Nessun commento:

Posta un commento